Valutare i conti dello stato: ma come essere leale con il governo e tenerlo allo stesso tempo sotto controllo? Difficile, se i sentieri del castello, più che incrociarsi, si intrecciano

La casa dei soldi

Stefano Cingolani

Stanza dopo stanza, ecco come sono distribuiti i poteri al ministero dell’Economia. Per Padoan passaggi segreti, labirinti e tante botole.

Una ragazza di Borgo Bainsizza, provincia di Latina, mi scrisse una lettera descrivendo le condizioni di indigenza sue e della mamma e così concludendo: se lei ha un cuore nel petto non potrebbe far stampare due milioni di lire in più e mandarmeli?”. Guido Carli, tecnocrate tra i più potenti del Dopoguerra, nelle sue memorie di governatore della Banca d’Italia racconta questo aneddoto per ammonire quegli “esponenti della classe politica e loro consiglieri che li incitavano alle politiche espansive” senza tener conto delle compatibilità. L’ingenua fanciulla, in realtà, aveva ragione solo che la lettera era stata inviata all’indirizzo sbagliato. Se ne accorse lo stesso Carli quando nel 1989 divenne ministro del Tesoro. A quel punto ebbe la prova che la casa dei soldi stava sì a Roma, ma non in via Nazionale, dentro il caveau della Banca centrale, e neppure nella zecca di piazza Verdi, bensì proprio nel Palazzo delle Finanze in via XX Settembre. Edificato tra il 1871 e il 1876 in pieno stile sabaudo, con una corte che sembra una piazza d’armi, è la prima grande opera di Roma capitale. Nella sontuosa sala della Maggioranza si riuniva il Consiglio dei ministri. La scrivania in legno massiccio donata dai maestri d’ascia biellesi a Quintino Sella, viene passata ancor oggi dall’uno all’altro come un testimone, anzi un amuleto.

 

Il ministero dell’Economia e delle finanze, in arte Mef, mette insieme tesoro, bilancio e fisco, cioè uscite ed entrate, spese e tasse. La fusione è stata congegnata da Franco Bassanini nel 1999 e realizzata da Giulio Tremonti nel 2001 durante il primo governo Berlusconi. E’ il più grande tentacolo del leviatano, più potente delle Forze armate alle quali paga ogni mese pane e companatico: come dimostrano le ultime cronache, se si chiude la cornucopia di Via XX Settembre soldati e poliziotti finiscono a chiedere l’elemosina. Il Mef ha 13 mila dipendenti diretti, distribuiti in ogni angolo del paese. Senza contare i 68 mila finanzieri; sì perché anche il titolare dell’Economia dispone di un proprio apparato militare. Serve per scovare gli evasori, spulciare i bilanci, entrare nei conti personali dei potenti come della gente comune. Non solo. Le Fiamme Gialle sono dotate di una propria intelligence e pullulano le barbe finte. Il ministro ne fa uso, non a piacimento, ça va sans dire, ma solo nell’interesse del paese.

 

Nel palazzo ogni vano ne richiama un altro. Lo studio del ministro rimanda alla stanza del capo di gabinetto al quale spetta raggiungere l’ufficio del direttore generale nel quale entrano ed escono i dirigenti operativi dei quattro dipartimenti (Tesoro, Ragioneria generale, Finanze e amministrazione) più Maria Cannata, la donna che ha in mano i duemila miliardi del debito pubblico perché, nonostante il continuo aumento, le tasse non bastano mai. La casa dei soldi è una casa dei debiti ed è quello che Carli cercò di spiegare alla ragazza di Latina.

 

I guardiani che controllano il denaro in uscita, i gabellieri responsabili delle entrate e i bollinatori ai quali spetta il via libera tecnico di ogni legge, sono le maschere che percorrono i lunghi corridoi affacciati sul cortile; figure d’altri tempi, circondate da presenze oscure: l’Agenzia delle entrate, il demanio, il catasto, le dogane, i monopoli. Tutte vivono una grande contraddizione. Nel 1869 il conte Luigi Guglielmo di Cambray Digny, ministro del Regno, realizzò il primo organismo tecnico per valutare i conti dello stato, con l’obiettivo di applicare i principi di Cavour: l’intera struttura amministrativa andava organizzata per produrre un buon bilancio e il ragioniere doveva diventare il cerbero della spesa. Ma come essere leale con il governo e tenerlo allo stesso tempo sotto controllo? Davvero difficile, se i sentieri del castello più che incrociarsi, s’intrecciano.

 

Quando Pier Carlo Padoan il 24 febbraio scorso ha varcato il solenne portone, ha trovato un clima di disagio e di scompiglio. Dopo l’uscita di Vittorio Grilli, già direttore generale con Giulio Tremonti e ministro con Mario Monti, sono scesi col paracadute buona parte dei massimi dirigenti, a cominciare dal direttore generale arrivato dall’America: Vincenzo La Via infatti ha lavorato ai vertici della Banca mondiale, anche se dal 1997 al 2000 aveva gestito il debito pubblico italiano. Fabrizio Saccomanni direttore generale della Banca d’Italia nominato ministro da Enrico Letta, ha portato da Via Nazionale anche il nuovo ragioniere generale, Davide Franco, già capo del servizio studi con l’intento di introdurre una forma mentis da macroeconomista in un sistema dominato dalla cultura giuridico-amministrativa.

 

Il predecessore, Mario Canzio era entrato al ministero da giovane e in quarant’anni aveva salito ogni scala, attraversato ogni stanza, battuto ogni corridoio, aperto e chiuso ogni botola del castello. Il suo addio ha lasciato il segno: in una lettera amara si è detto “ferito”, ma il rapporto di fiducia è tutto. Franco non è il primo ragioniere catapultato dall’esterno. Anche Vittorio Grilli era stato scelto da Giulio Tremonti nel 2002 per sostituire un grosso calibro, Andrea Monorchio rimasto alla guida dal 1989 al 2002, sulla scia di altri potenti mandarini come Vincenzo Milazzo negli anni 70-80. Economista, bocconiano, professore a Yale, Grilli negli anni 90 aveva seguito passo passo le privatizzazioni sotto la guida di Mario Draghi, uno dei più potenti e capaci direttori generali. Nominato da Carli nel 1991, è rimasto un punto fermo mentre passavano governi e ministri di centro, di destra e di sinistra, tecnici provenienti dalla Banca d’Italia come Lamberto Dini e Carlo Azeglio Ciampi, politici come Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema o figure ambivalenti come Giuliano Amato e Romano Prodi. Draghi ha smantellato il capitalismo di stato, ha spinto il popolo dei Bot verso la Borsa e ha pilotato verso il basso un debito ben lontano dai parametri di Maastricht. Non tutto ha funzionato, ma non si può certo dire che non abbia lasciato il segno.

 

Anche Grilli è stato un direttore generale di alto livello; la Ragioneria generale, invece, è riuscita a disorientarlo. Organizzata secondo una gerarchia dal tratto sabaudo, è una macchina complessa: nove ispettorati più un servizio studi, quattordici terminali nei ministeri con portafoglio, 103 uffici territoriali. Assorbe circa la metà dei dipendenti del ministero ed è il secondo dipartimento dopo le finanze: mentre quest’ultimo sovrintende alle entrate, la ragioneria fa da collettore della spesa. L’olio sacro del potere unge chi sa; ma, a differenza dalla repubblica platonica, al Mef costui non è un filosofo, bensì un ragioniere.

 

Dentro questo torrione parallelo esiste una nicchia alla quale hanno accesso solo i pochi che contano davvero. E’ un modesto ufficetto nel quale confluiscono tutti i mille rivoli della spesa sociale, dalla sanità alle pensioni, passando per gli assegni di disoccupazione. Ed è occupato dall’Ispettore Generale Capo per la spesa sociale. Oggi quel posto chiave è vacante. Ci vuole un uomo di assoluta fiducia, che sappia trattare con le regioni e sia in grado di dire molti no a tutti anche al ministro. Sulla sua testa ricade una responsabilità anche giuridica introdotta da Tremonti nel 2010 perché chiunque metta il bollo su un provvedimento senza essersi accertato che sia sostenibile può essere incriminato.

 

Ogni decisione di qualsiasi ministero che abbia effetti di tipo economico-finanziario, cioè il 95 per cento almeno, finisce al Mef dove percorre il seguente itinerario: il gabinetto del ministro, la ragioneria, la direzione finanza se riguarda le entrate, la direzione generale del tesoro se inerente a banche e finanza, infine tutte le pratiche tornano sulla scrivania di partenza.

 

In Via XX Settembre si favoleggia ancora sui tempi di Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto con Tremonti. Era lui a regolare un andirivieni che talvolta assomiglia a una pièce di Georges Feydeau con il vaudeville pronto a trasformarsi in dramma. Non si contano i ministri caduti lungo il tragitto da una stanza all’altra. Tra questi c’è Corrado Passera. Il ministero dello Sviluppo voleva creare una cabina di regia per l’Agenda digitale e aveva preparato un disegno di legge; quando il Mef lo ha rinviato, richiedeva ben 38 decreti attuativi, in concerto con altre amministrazioni, ciascuno dei quali alla fine è rientrato nella stessa stanza dalla quale era uscito.

 

Per il gabinetto passano le nomine nelle aziende a partecipazione statale delle quali il Tesoro è formalmente azionista di riferimento. Presidenti e amministratori delegati sono appannaggio del ministro il quale concorda i nomi con il capo del governo e questi a sua volta consulta i partiti e i potenti che lo sostengono. Esiste anche una commissione di saggi che valuta requisiti e onorabilità. Ma i consiglieri di amministrazione sono oltre seicento e a quel punto il castello si colora di tinte kafkiane.

 

A detta di tutti, Fortunato aveva accumulato grande potere nei suoi dieci anni e passa di servizio ed era in grado da solo di confezionare la legge di bilancio. Un’abilità della quale si sente la mancanza. Saccomanni ha scelto Daniele Cabras funzionario della Camera e figlio di un ex parlamentare democristiano. Con Padoan è arrivato un magistrato, Roberto Garofoli, già segretario generale di Palazzo Chigi con Enrico Letta, esperto di mafia e lotta alla criminalità.

 

Ministro, capo di gabinetto, direttore, ragioniere sono in fibrillazione perché li attende il cerchio di fuoco. Mercoledì prossimo, primo ottobre, il Mef deve presentare la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza che modifica in modo sostanziale le cifre della primavera: non più una crescita dello 0,8 per cento quest’anno, ma, se tutto va bene, zero spaccato. E ciò cambia gli stessi parametri per il 2015 sui quali verrà costruita la finanziaria chiamata dal 2009 legge di stabilità, definizione che evoca lo stato stazionario mentre dovrebbe servire a mettere in movimento non a bloccare l’economia. In realtà, quando la presentò nella nuova veste, Tremonti intendeva tornare alla impostazione originaria, magari sognando di fare come il cancelliere dello Scacchiere che arriva a Westminster con una valigetta chiusa: prendere o lasciare.

 

Introdotta da Beniamino Andreatta nel 1978, la legge, da presentare entro il 30 settembre, doveva stabilire (nell’art. 1) il limite di ricorso al mercato, cioè l’indebitamento annuo, scelta squisitamente politica. Fissate le coordinate, quel che non è compatibile deve restare fuori. L’Unione europea con le sue direttive volte a regolare le grandezze finanziarie e gli equilibri macroeconomici in ogni paese membro, vorrebbe rafforzare questo carattere da programmazione ex ante. Invece, la finanziaria diventa regolarmente la zattera della Medusa alla quale tutti s’aggrappano fuori e dentro il Parlamento.

 

L’articolo 81 della Costituzione italiana prescrive che ogni nuova spesa sia coperta da una equivalente nuova entrata. Oggi è rafforzato dall’obbligo di pareggio del bilancio previsto dal Fiscal compact. Finora il vincolo è stato sempre aggirato. I tagli che riempiono ogni anno il teatrino politico-mediatico sono un inganno: in realtà, si stima quanto serve per l’anno successivo a parità di servizi e prestazioni, poi la cifra viene ridotta di una certa quota. In questo modo, la spesa pubblica aumenta di 30 miliardi l’anno nonostante le continue manovre e stangate. Unica eccezione nel 2010-2011 quando ci fu una leggera riduzione rispetto al pil, grazie ai tagli lineari imposti da Tremonti che, fallita la spending review, stanno tornando in auge.

 

[**Video_box_2**]Nel 2006 con il secondo governo Prodi diventa ministro Tommaso Padoa-Schioppa. Cosmopolita, grande esperto di Europa e tra i padri dell’euro, l’economista scuola Bankitalia introduce il modello anglo-canadese di revisione della spesa con l’obiettivo di metterla sotto controllo e possibilmente ridurla usando parametri standard in grado di bypassare i veti politici. Ma la scorciatoia tecnocratica non ha funzionato. Affidata a grandi esperti come Luigi Giarda o a manager tosti come Enrico Bondi, la spending review è rimasta un esercizio teorico del tutto inutile se persino il ministro non conosce i veri dati. Durante la gestione di Padoa-Schioppa, venne fuori che c’era un tesoretto, perché le entrate avevano superato le uscite e nessuno se n’era accorto. Cinque anni prima al contrario Tremonti aveva scoperto che il governo Amato aveva lasciato un buco non previsto. La querelle sugli esodati con lo scontro di cifre tra l’Inps, il ministero del Lavoro e la Ragioneria dello stato è costata la faccia a Elsa Fornero e ha creato una falla che si trascina di finanziaria in finanziaria.

 

Sono alcune delle infinite botole che si aprono all’improvviso nella casa dei soldi. Chi vi entra senza conoscerne le nicchie più recondite, è meglio che cerchi subito un’uscita di sicurezza, come è successo a Carlo Cottarelli. Chiamato da Letta con la carica triennale di commissario straordinario, mette subito in pratica il metodo appreso al Fondo monetario creando ben 25 gruppi di lavoro. Alcuni, una dozzina, portano analisi e proposte. Poi a febbraio scoppia la crisi di governo e l’impianto si sfalda.

 

Arriva Renzi e Cottarelli presenta le sue idee, slide dopo slide. Propone un contributo straordinario sulle pensioni oltre i 2.500 euro mensili e ne parla persino in Parlamento. Apriti cielo. Il capo del governo precisa che sono ipotesi tecniche mentre la scelta è politica, squadernando le sue diapositive, quelle con il bonus fiscale di 80 euro. Stravince le elezioni europee e cambia spalla al fucile. Da quel momento Cottarelli è sempre più solo. Così, chiede di tornare a Washington “per motivi famigliari”.
Dopo di lui non ci sarà nessun commissario. A Palazzo Chigi ora c’è un manipolo di consiglieri del principe per sorvegliare dall’esterno il Mef e trovare soluzioni innovative. Ma da tempo partecipa a tutte le riunioni Yoram Gutgeld che sulla spesa pubblica ha idee diverse provenienti dagli anni trascorsi in McKinsey, la società di consulenza che ha piazzato i suoi esperti anche al ministero. Guardiani e gabellieri sospettano di questa cultura da ristrutturazione aziendale. Come reagiranno? E quanti provvedimenti verranno bollinati da una ragioneria che ha già bocciato Marianna Madia sulla pensione dei professori universitari e ha vistato in rosso l’assunzione dei precari proposta da Stefania Giannini?

 

Additati come vandeani, ottusi conservatori nemici di ogni riforma, i custodi del Palazzo delle Finanze si difendono: “Noi mettiamo gli ingredienti, il ministro la formula”. Ma gli ingredienti non scaturiscono dal nulla e nessun ministro è in grado di moltiplicare pani e pesci. Bisogna trovare qualcosa come 20 o forse 25 miliardi per soddisfare l’Unione europea e tutte le scoppiettanti promesse renziane. Dieci miliardi sono già impegnati in anticipo per coprire il bonus fiscale di 80 euro, mentre si pensa di estendere i benefici alle partite Iva. In più c’è da assumere i precari della scuola, sistemare altri esodati, trovare 3 miliardi per il Jobs act, rispettando il limite del 3 per cento. E la ripresa? Non c’è spazio per investimenti pubblici, ammesso che siano davvero efficaci. Meglio sarebbe un robusto taglio delle tasse, accettando di sforare il tetto Ue, però occorre un solido consenso politico per reggerne lo choc interno e internazionale.

 

Alle cento trappole del castello, s’aggiunge così il trappolone europeo. La speranza è che, caduto il totem dell’articolo 18, Draghi, vincendo la strenua resistenza tedesca, possa stampare altra moneta e comprare titoli di stato. Padoan ha il compito di tenere in ordine la casa dei soldi chiudendo porte, finestre, botole, scantinati. E la ragazza di Borgo Bainsizza, che ormai sarà una signora matura, può scrivere al seguente indirizzo: Eurotower, Kaiserstrasse 29 DE-60311, Frankfurt am Main, Deutschland.

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