L’isola di Poveglia, nella laguna veneta, in una stampa di Francesco Tironi, attivo a Venezia nella seconda metà del Settecento

Serenissima acqua

Giovanni Battistuzzi

Dominio e collasso, Mose e Vajont. Il Veneto, una regione che deve tutto ai fiumi e alla laguna. Non c’è elemento che possa  raccontare meglio l’evoluzione di questa regione ed esemplificarne il carattere e il cambiamento

Acqua che è montagna, almeno in origine, che è scorrimento e percorso, almeno per necessità, che è foce, fuoriuscita, almeno in conclusione. Acqua che è H2O, almeno per composto chimico, due particelle di idrogeno e una di ossigeno, che è vita, almeno per antonomasia. Acqua che è anche spazio da percorrere, o meglio navigare, che è irrigazione o energia, che è commercio. Acqua che è anche Veneto, o forse Veneto è soprattutto acqua, perché è la regione con il maggior numero di risorse idriche d’Italia e il bacino idrogeologico più esteso, perché, soprattutto, l’acqua ne ha segnato la storia, nel bene e nel male, degli ultimi nove secoli: ascese, cadute, esaltazioni e tragedie. Non c’è elemento che meglio dell’acqua può raccontare l’evoluzione di questa regione, che ne può esemplificare il carattere e il cambiamento, l’incapacità di seguire schemi precostituiti, inquadrati, perché il Veneto è eccezione, è differenza, è particolarità, sia essa positiva o negativa.
L’acqua è stata origine della civiltà veneta, sul monte Avena, lungo il torrente Caorame (i più antichi ritrovamenti risalgono a 40 mila anni fa). Divenne necessità, rifugio dalle invasioni barbariche del V secolo d. C., isole trasformate in roccaforte per scappare da saccheggi e distruzione: Venezia. Divenne navigazione e conquiste, dominio e commercio, potere e ricchezza: controllo sul Mediterraneo orientale, almeno se si considerano tratte, scambi, merci e denaro. Si trasformò in rimpianto e dissoluzione, in antico splendore e in trasformazione, in conquista, questa volta subita, in supremazia, questa volta altrui. Il resto è storia recente, il Piave, fiume sacro alla patria, il Vajont, tragedia, la mala del Brenta, associazione a delinquere, il Mose, corruzione, infine Refrontolo, il Molinetto della Croda, esondazione, quattro morti, accuse di dissesto idrogeologico, che è problema reale in parte del territorio, ma non in quella zona, non causa di quanto accaduto. Cronaca, recente, tutta ancora da valutare, capire, indagare e infine trascrivere.

 

L’acqua è motrice del Veneto, ne ha segnato la storia recente e meno recente, continua a essere quaderno che raccoglie avvenimenti e cronaca. Sarà perché è regione a tradizione mercantile e contadina, patria di famosi avventurieri, commercianti, esploratori e soprattutto umili agricoltori, sarà perché è stata causa e conseguenza delle più importanti trasformazioni socio-economiche e politiche degli ultimi cento anni, motore di innovazione e involuzione, trasformazione e degradazione, sarà forse anche perché “fa male e fa ruggine”, mentre “il vino fa cantare”, come si è soliti dire in osteria.

 

La storia recente di questa regione che ambisce all’indipendenza e vuole restaurarsi in Serenissima Repubblica, declamandosi a gran voce diversa e altra da “Roma ladrona”, salvo poi riscoprirsi affetta dalle stesse problematiche e dalle stesse dinamiche, trova origine e continuità proprio nell’acqua. Il Mose (78 paratoie mobili divise in quattro schiere, poste alla bocca di accesso alla Laguna di Venezia, composte da strutture scatolari metalliche cave all’interno, agganciate ai cassoni di alloggiamento posti sul fondo del mare tramite cerniere che ne permettono il movimento; se inutilizzate giacciono sul fondale piene d’acqua, altrimenti questa viene fatta uscire tramite pompe ad aria compressa; proteggono da un innalzamento delle acque di al massimo tre metri) capitolo, per ora, conclusivo di una storia iniziata almeno un secolo prima, sulle rive del Piave, o meglio della Piave, in quanto corso d’acqua, femmina, materna, fonte di sostentamento. Fronte ultimo per cercare di resistere all’invasione austriaca dopo la disfatta di Caporetto. Lì la resistenza, battaglie che tinsero di rosso il corso d’acqua, controffensiva, sfondamento, vittoria. Medaglie al valore, gloria nazionale, speranze di riscatto sociale per una regione che aveva vissuto l’apoteosi della Repubblica più ricca d’Europa ma che si era ritrovata a essere periferia depressa e ininfluente prima di imperi, quello francese e austroungarico, poi di un regno, quello d’Italia. Speranze cadute nel vuoto, disattese, inascoltate.

 

La storia recente del Veneto è l’esondazione del torrente Lierza che ha travolto la Festa dei òmeni al Molinetto dalla Croda a due passi da Refrontolo, provincia di Treviso, spazzando via tavoli e festeggiamenti, provocando la morte di quattro persone e il ferimento di altre otto, oltre a danni a colture, automobili e infrastrutture.

 

La storia recente però parla soprattutto di altro; l’acqua non è più fluviale ma lagunare, alta, non tracimata, lo scenario a valle, oltre la terraferma, oltre la laguna, anzi alla fine di essa, lì dove l’isola del Lido e quella di Pellestrina sfiorano le penisole di Chioggia e del Cavallino, creando le bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia. Lì dove sono sorte le paratoie mobili del Mose, MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, che dovrebbero regolare l’afflusso di acqua in laguna evitando così il fenomeno dell’acqua alta che mette a rischio Venezia e Chioggia, le altre isole lagunari, oltre al patrimonio storico, artistico e ambientale. Acqua da evitare, tenere lontana. Contrappasso. Venezia che ha fondato la sua grandezza e bellezza sull’acqua, rischia di soccombere proprio a causa di questa. Mose, soluzione di recente costruzione, ma dilemma antico, secolare: come difendersi dalle mareggiate. Problema reale dall’Ottocento. Allora la soluzione all’ingrossarsi del mare era salire di piano, semplice e un po’ naïf, ma efficace. Fu nel 1936 che i veneziani si accorsero del problema: 136 cm di innalzamento delle acque e molti danni a gran parte della città. In seguito, 1956, 130 cm, 1960, 145 cm, avvisaglie. Il dramma si palesa il 4 novembre del 1966, Venezia invasa da 194 cm di acqua, allagamenti, disagi e problemi di tenuta di diversi edifici. La richiesta della popolazione fu unanime: “Mai più”.

 

Il ministro dei Lavori pubblici di allora, Giacomo Mancini, promette, ma solo nel 1975 viene indetto un concorso per la realizzazione di una grande opera che potesse salvaguardare la laguna. Tanti progetti nessuna decisione. Nel 1984 la legge Speciale 789/1984 prova ad accelerare le pratiche: via al “Comitatone”, ovvero il Comitato d’indirizzo, coordinamento e controllo degli interventi per risolvere il problema dell’acqua alta che nel corso degli anni 70 aveva avuto il suo picco. Il progetto viene affidato al Magistrato delle Acque – Consorzio Venezia Nuova. Ipotesi: costruzione di una serie di paratie mobili sperimentali, il cui prototipo è chiamato Mose. Critiche, ambientalisti infuriati, tutti a dire, “sì ma in Olanda hanno risolto diversamente”. Il problema è che l’Olanda non ha il patrimonio artistico e paesaggistico di Venezia e che si tratta di oceano e non di Adriatico. Risoluzione: via libera al progetto Rea (Riequilibrio e Ambiente), ovvero il Mose. Nel 1992 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici inizia a studiare l’opera; nel 2002 viene presentata la versione definitiva; nel 2003, il 3 aprile si dà inizio ai lavori. Da allora sono passati 11 anni, molti ricorsi da parte di associazioni ambientaliste che protestavano per presunti danni ambientali nel lungo periodo. Tutti rigettati dal Tar e dal Consiglio di stato. L’ultimo invece fu accolto dalla commissione Ambiente dell’Unione europea: il problema è legato alla nidificazione degli uccelli. La difesa del Consorzio è però convincente e accurata: respinto in appello. Il Mose si inizia a costruire, lentamente.

 

Tutto inizia a scricchiolare un anno fa. 28 febbraio 2013. La Guardia di Finanza di Venezia arresta Piergiorgio Baita e altri amministratori della Mantovani spa per presunta frode fiscale. Maggio 2013. Alle accuse precedenti si aggiunge quella di false fatturazioni. Luglio 2013. Vengono scoperti fondi neri in Austria. Giugno 2014. Atto, forse, conclusivo. Il non ancora emerso viene a galla: 35 arresti tra imprenditori, manager, amministratori e politici, tra i quali anche l’ex presidente della regione Veneto, Giancarlo Galan, accusato di corruzione, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, accusato di finanziamento illecito, e Emilio Spaziante, ex vicecomandante della Guardia di Finanza, accusato di aver fornito dietro compenso “informazioni riservate sulle indagini”.

 

Il Veneto si scopre fragile, ferito della stessa accusa che veniva fatta a Roma: rubare. Guardare colui al quale si aveva espresso fiducia “in prizòn” non è bello, ci si sente nudi, scoperti, soprattutto se per anni lo si è sempre etichettato con l’evidenza de “l’è tanto un brav’omo”. C’è però qualcos’altro nello scandalo Mose, qualcosa che è passato sottotraccia, magari un ragionamento un po’ troppo semplice, troppo poco raffinato per i grandi accusatori, per i giornali da titoloni e poco altro: il fatto che in una storia trentennale (quanto meno se si considera l’inizio del concorso) siano stati indagati solamente gli ultimi arrivati, quelli che poi sono riusciti a portare (quasi) a termine il progetto, come mai non ha fatto storcere il naso a nessuno? E se il problema fosse burocratico, almeno in caso di grandi opere, piuttosto che personale, e per arrivare a qualcosa in un tempo ragionevole servisse in un modo o nell’altro velocizzare il sistema? Non che questo sia scusante o assolutorio, ma dovrebbe essere necessario almeno porsi la questione.

 

Inchieste giudiziarie a parte, il caso Mose non è altro che la conclusione di un processo iniziato oltre quattro secoli prima. Un processo che dall’acqua è partito e che sull’acqua sembra essersi concluso e tratta in sostanza di campanili, sussistenza, visione del mondo particolare, pro domo propria. Qualcosa che trova le sue origini nei mulini, nell’agricoltura latifondista, solcata da canali navigabili per il trasporto delle merci, della Venezia che si apprestava a concludere la sua storia indipendente, che da potenza commerciale si trasformava in succursale e periferia di potenze estere. Campi coltivati e piccole città governate da ricchi signori lagunari. Una forma di economia che travalicherà i secoli e le dominazioni, il periodo unitario, due guerre mondiali, il regime fascista. Si sublimerà nel “modello” democristiano di un complesso industriale per ogni campanile, lettura un po’ semplicistica della corsa all’industrializzazione di questa regione geograficamente al nord, ma per molto tempo più vicina al meridione per qualità della vita e ricchezza misurata in pil, per vicinanza e prossimità con la religione e lontananza dai fuochi socialisti, prima, e comunisti, in seguito, che hanno caratterizzato invece la storia di altre zone del nord.

 

Una regione che scopre il grande boom economico in ritardo, ma al quale si era preparata man mano, col tempo. Perché quella del “Veneto sottosviluppato, terra di miseria ed emigrazione”, se era storia vera almeno sino alla conclusione dell’epoca fascista (negli ultimi due decenni dell’800 il 7 per cento della popolazione era affetta da pellagra, nel 1940 il 4,5, mentre la sottonutrizione rimase pressoché costante dall’unificazione sino all’inizio degli anni 50 del ’900 con cifre percentuali oltre il 10 per cento), negli anni del primo boom si stava già trasformando in qualcos’altro. Continuava quel silente percorso verso l’industrializzazione che era già iniziato negli anni 80-90 dell’800 nell’area del vicentino attorno agli stabilimenti tessili del lanificio Rossi a Schio e del lanificio Marzotto a Valdagno e poi a Marghera, terra ferma di fronte a Venezia. Nei primi anni 50 si distribuiscono sul territorio a macchia di leopardo altre piccole aziende, prevalentemente a conduzione familiare, grazie all’intraprendenza dei singoli imprenditori, quasi sempre ignorati dalle istituzioni locali incapaci di adottare un piano di trasformazione da un’economia quasi totalmente agricola a una industriale, come è stato fatto notare, tra gli altri, dal professore di Storia economica dell’Università di Padova Giorgio Roverato. Una regione che abbraccia il boom in modo parziale, scostante, che inizia a camminare mentre tutto attorno a lei corre a più del 6 per cento annuo. Che si arrocca ai campanili più per necessità che per scelta, che cerca di portare a casa il più possibile, attaccandosi all’unica cosa certa, la chiesa, creando un modello industriale più simile a una comunità cristiana che a una grande industria. Che cerca il meglio per sé, in primo luogo, ma soprattutto vuol far vedere la propria bravura e potenza al vicino e che a volte proprio per esibizionismo allunga troppo la gamba e cade.

 

Il Mose è risultato di questo sistema, di un modello popolano e un po’ cafone, di una voglia di dimostrarsi meglio delle proprie possibilità. Un’opera colossale e all’avanguardia, innovativa e raffinata, ma che più che con la tecnica si scontra con la voglia di fare e a volte strafare, per dire “mi son riusì a far”.

 

Il Mose è anche figlio di altro, di una storia che questa volta dalla laguna risale il corso dei fiumi e ritorna a monte, in montagna, lì dove le Prealpi finiscono e iniziano le Alpi, a scalar le valli, percorso inverso dei tronchi che hanno fondato, strutturalmente, Venezia.

 

Una storia che parte nel 1949 quando la Sade, Società adriatica di elettricità, iniziò i lavori di costruzione della diga che doveva incanalare l’acqua di tre torrenti in un invaso di 58,2 milioni di metri cubi per ricavarne energia elettrica. Luogo prescelto, la valle che da Longarone si inoltrava verso il Friuli, su verso gli abitati di Erto e Casso proseguendo poi verso il Cellina. Vajont. Un progetto ambizioso e “strepitoso”, almeno per gli architetti dell’epoca. Un progetto maestoso e faraonico, esempio di maestria ingegneristica e progresso, soprattutto un progetto buono per creare posti di lavoro in una delle zone d’Italia a maggior tasso di emigrazione. La diga viene costruita in fretta, cemento su cemento, il bacino riempito, i primi problemi ignorati, i secondi pure, la terra che trema, che avvisa, che poi crolla. Alle 22,35 del 9 ottobre 1963, oltre 270 milioni di metri cubi di roccia e terra del monte Toc franano nel bacino idrico, sollevano tre onde, una delle quali, di 50 mila metri cubi d’acqua, tracima dalla diga e rade al suolo tutto quello che trova, ovvero Longarone e gli altri paesi limitrofi. I morti saranno 1.918. I danni incalcolabili. La distruzione totale. Le colpe evidenti. Allarmi prima ignorati, poi trascurati, infine taciuti quando anche l’evidenza diceva che era meglio bloccare tutto.

 

E poi quel nome, monte Toc, i consigli e lo stupore dei vecchi del luogo, “no xè posibie costruir na roba del genere soto el Toc”, perché Toc in veneto è pezzo, in friulano marcio, guasto, toponimo di frane. Luogo di frane. Da sempre. La toponomastica però non è scienza e il Vajont ora è sinonimo di disastro: non tecnico – la diga c’è ed è ancora maestosa e perfetta – ma di spavalderia, di arroganza, di noncuranza della natura. Di stato. Perché il Vajont è grande opera, volere statale, sogno di indipendenza energetica. Perché il Vajont vuol dire morte e distruzione, ma è inutile negare che vuol dire anche altro, che fa rima sempre con stato, ma che ha il colore delle lire, di leggi speciali, di boom economico, questa volta vero e a doppia cifra. La più grande tragedia italiana del Dopoguerra ha dato però anche il via a una trasformazione dell’economia veneta e di una regione che ha cercato di dimenticare tutto, la tracimazione della diga e soprattutto il dopo.

 

La legge per il Vajont del 4 novembre 1963, rifinanziata a più riprese sino alla fine degli anni 80, prevedeva un contributo del 50 per cento per la ricostruzione delle imprese industriali e commerciali nella provincia e nelle zone limitrofe, un contributo del 70 per cento per la ricostruzione delle aziende a Longarone e a Castellavazzo, un mutuo quindicennale al 3 per cento per il resto della spesa, un contributo del 100 per cento per la ricostruzione delle scorte danneggiate o distrutte, oltre ad agevolazioni ed esenzioni tributarie, la possibilità di ricostruire le attività commerciali in un luogo diverso purché nelle province di Belluno e Udine o in province limitrofe e la possibilità di cedere a terzi i contributi per la ricostruzione. Tutte norme doverose e sacrosante, ma che hanno contribuito alla creazione a tasso agevolato di una miriade di aziende anche dove i drammi non si sono vissuti. Grazie alle concessioni, le aziende nel bellunese erano passate da 677 del 1960 a 3.685 del 1975. Nello stesso periodo anche quelle del trevigiano e del pordenonese erano cresciute esponenzialmente (+62 per cento nel trevigiano e +55 per cento nel pordenonese) grazie ai contributi a pioggia post Vajont, contribuendo a un aumento del pil medio annuo di oltre sei punti percentuali.

 

L’acqua è stata distruzione, certo, ma ha anche contribuito all’exploit di quel Veneto che è economia particolare d’Italia, patria della piccola e media impresa, “modello”, ancora per qualcuno, del complesso industriale per ogni campanile, ma che probabilmente non sarebbe riuscita a imporsi in questo modo senza l’intervento, sconsiderato, di mamma Roma. La Roma odiosa e da combattere, ladrona e sovrana, “genitrice di male e corruzione” (almeno per un vecchio manifesto leghista), alla quale il Veneto si è scoperto, con il Mose, di non essere poi così distante. Il principio è lo stesso sin dalla Serenissima Repubblica, ovvero cercare di mandare avanti benessere e ricchezza per molti tramite il commercio, quindi compromesso tra domanda e offerta, mediazione, strette di mano e pacche sulle spalle. Come per il Vajont.