No Mose no party

Enrico Cisnetto

Carlo Nordio, magistrato garantista e competente, l'ha detto e ripetuto: non servono nuove leggi anticorruzione, non serve identificare nuovi reati, non serve inasprire le pene, non servono super poteri a chicchessia.

Carlo Nordio, magistrato garantista e competente, uno che farebbe il ministro della Giustizia meglio di chiunque, l’ha detto e ripetuto in tutte le lingue a margine dell’inchiesta sul Mose che porta anche la sua firma: non servono nuove leggi anticorruzione, non serve identificare nuovi reati, non serve inasprire le pene, non servono super poteri a chicchessia. Al contrario, serve semplificare: “Meno passaggi, meno regole e meno controlli uguale minor corruzione”. Sarà bene che governo e Parlamento, che sull’onda del rumore mediatico dei casi Mose ed Expo promettono la vittoria del bene sul male, ne tengano conto. Come sempre succede quando scoppiano scandali, invece di analizzare con freddezza e razionalità i perché di certi fenomeni, si cavalca populisticamente l’emozione e si ipotizzano ricette che, lungi dal risolvere quei problemi, finiscono per far più danno di quello che si pretende di combattere. Non parlo, ovviamente, delle reazioni isteriche dei “no a tutto”, quelli che l’Expo non vorrebbero che si facesse più e che il Mose, oggi costruito e finanziato per oltre l’80 per cento, fosse “buttato a mare” (è proprio il caso di dire). Il problema non è (solo o tanto) il khomeinismo ambientalista – che tace sul fatto che a Venezia, dopo anni, sono tornati a migliaia i fenicotteri rosa, e proprio su quelle barene artificiali che avrebbero, a detta loro, ucciso l’ecosistema lagunare – o i pifferai della “decrescita felice” che vedono in qualunque grande opera il segno del cedimento all’odiato capitalismo sviluppista. No, il pericolo vero sta nella subdola suggestione – appunto respinta da un magistrato intelligente come Nordio – che la corruzione vada combattuta scrivendo l’ennesima legge o istituendo l’ennesima autorità di controllo, cui, probabilmente, non rimarrebbe che controllare le altre autorità già esistenti, in un perverso gioco di specchi ripetibile all’infinito. Tra l’altro non funziona più, neppure con l’opinione pubblica meno avveduta, che si sente presa in giro dall’annuncio di mirabolanti leggi ammazza-ladri o dall’emergere sulla scena di salvifici commissari praticamente onnipotenti.

 

Detto questo, ci sono quattro cose che, invece, andrebbero fatte. La prima è la riforma della giustizia. La aspettiamo dal 1992 e non è mai arrivata. Parlo di una riforma vera, non degli ennesimi interventi marginali di cui anche in queste ore si sente parlare. E Renzi, che oscilla pericolosamente tra serie posizioni garantiste e demagogiche prese di posizione di chiara impronta giustizialista, ha il dovere di dire una parola netta e definitiva in materia. La sconfitta alla Camera (dove il Pd ha da solo la maggioranza) sull’emendamento leghista non è un segnale confortante.

 

La seconda cosa da fare è un intervento iper semplificatorio di tutte le norme che riguardano i rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni. Anche qui intento molto evocato e per nulla praticato, fin da quando c’erano ministri che bruciavano simbolicamente in piazza le leggi in eccesso. Anzi, si fa il contrario. Un numero esemplificativo per tutti: la direttiva comunitaria in materia di appalti è di 84 articoli, la norma italiana che la recepisce è fatta di 614, ben otto volte di più. Questo moltiplicatore spiega meglio di qualsiasi parola che fin qui si è predicato bene e razzolato male. Dunque, anche in questo caso Renzi batta un colpo.

 

La terza cosa da fare è definire solennemente, nei programmi del governo, che le infrastrutture, materiali e immateriali, sono un obiettivo strategico del paese. Negli ultimi vent’anni l’Italia ha speso per esse quanto gli altri maggiori paesi europei, ma ha speso male, tanto che siamo penultimi nella Ue con un indice di dotazione infrastrutturale di 95, contro i 117 del Regno Unito, i 115 della Germania, i 101 della Francia. Ha ragione Maroni: su Expo si sono persi mesi preziosi – in aggiunta a quelli bruciati negli ultimi anni – e ora le probabilità di farcela sono ridotte al lumicino. Sul Mose il Cipe deve approvare l’ultima tranche di finanziamento (circa 400 milioni) e sarebbe criminale anche solo ritardare un’opera che, tra l’altro, essendo tutta sottomarina rischia velocemente di degradarsi. Dunque, si faccia quel che c’è da fare per dimostrare, concretamente, che non si cede alla cultura della continua messa in discussione.

 

La quarta e ultima cosa è la riscrittura del codice degli appalti. Circolano anticipazioni sul testo della “commissione Nencini”. Vedremo se e come il governo lo farà proprio. Fin d’ora si può dire che tutto ciò che abbatte burocrazia è cosa buona e giusta, e che l’introduzione del “débat public” va bene purché il diavolo non si nasconda nei dettagli. Quanto all’obbligo di gara, ciò che importa veramente è superare il vecchio assunto della “Merloni” del “massimo ribasso su base d’asta”, un meccanismo che in questi anni ha giocato a discapito della qualità e rapidità dei lavori perché induce le imprese a vincere le gare facendo dumping sui prezzi per poi bloccarsi richiedendo continui aumenti. Ancora una volta, Renzi tocca a te.

Di più su questi argomenti: