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Uno scudo per salvare la laguna

Giorgio Barbieri

Non ha senso abbandonare un’opera costata cinque miliardi. Come incentivare nuovi imprenditori a completare il Mose. Il modello Ilva

Mercoledì a mezzogiorno l’Harry’s Bar era aperto come sempre. Proprio come accadde il 5 novembre 1966, il giorno successivo “l’aqua granda” che allagò l’intera Venezia e pose all’attenzione del mondo la questione della sua salvaguardia. Da dietro al bancone in Calle Vallaresso, uno dei punti più bassi di tutta la città e quindi più esposti alle maree, Arrigo Cipriani non si fa però impressionare dalle immagini che in queste ore stanno facendo il giro del pianeta. “È stata sì eccezionale ma non esageriamo con i catastrofismi. L’acqua alta c’è da mille anni. Non è un flagello, è un’amica di Venezia”.

 

Con buona pace di coloro che stanno accusando i cambiamenti climatici di quanto è accaduto nelle ultime ore in laguna, la verità potrebbe essere ben diversa.

 

Perché il nemico di Venezia non è l’acqua – che anzi nel corso dei secoli ha protetto la Repubblica serenissima dai nemici – ma solo ed esclusivamente l’uomo, ossia lo stato, immobile e incapace di fronte alle problematiche di questa fragile città. Che sia la questione delle grandi navi oppure l’acqua alta, i governi degli ultimi decenni, tutti, non hanno mosso un dito per modificare lo stato delle cose, anche su pressione di gruppi di interesse che da questo immobilismo traggono cospicui benefici economici: dai negozianti di paccottiglia che vendono ai turisti i vasi di Murano, però prodotti in Cina, alle piccole aziende locali che ricevono le briciole dei fondi destinati alle opere di salvaguardia.

 

 

Nel fondo della laguna giace però immobile la più grande opera idraulica del mondo, il Mose, che dovrebbe difendere Venezia dalle acque eccezionali. La sua storia è lunga e complessa e attraversa la Prima e la Seconda Repubblica.

 

 

È stata al centro di violente polemiche in laguna e a Roma, con l’ex sindaco Massimo Cacciari e gli ambientalisti a opporsi alla “grande opera necessaria”, sponsorizzata e portata avanti, si è scoperto poi anche a suon di mazzette, dal Consorzio Venezia Nuova, il mostro giuridico creato all’inizio degli anni Ottanta, ironia della sorte, proprio per accelerare i lavori.

 

Va però detto subito che le tangenti scoperte dalla procura di Venezia sono solo la minima parte dello spreco. Nel libro “Corruzione a norma di legge” (Rizzoli, 2014) insieme a Francesco Giavazzi abbiamo calcolato quanto sia costato l’aver impedito in laguna il funzionamento delle normali regole del mercato affidando il monopolio degli interventi a un unico concessionario. Sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi di euro circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto negli anni dal Consorzio Venezia Nuova per il suo lavoro di “coordinamento” tra imprese, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro, sui quasi 6 totali dell’opera. E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa. Una cifra spropositata, il cui risultato è abbandonato e lasciato arrugginire sotto l’acqua, che ci ricorda come sia necessario cambiare le regole e le leggi prima ancora che gli uomini.

 

Dopo l’esplosione dello scandalo giudiziario, Matteo Renzi perse l’occasione storica di provare a risolvere una volta per tutte i problemi di Venezia. Commise due gravi errori. Il primo fu la chiusura della struttura sbagliata: non il Consorzio Venezia Nuova, ma il magistrato alle Acque, l’istituzione che dal 1500 vigilava sul governo delle acque della laguna e che negli ultimi anni si era messo al servizio dei costruttori del Mose. Un po’ come se si scoprisse che un sindaco è al servizio di un imprenditore per la costruzione di un centro commerciale e, come soluzione, si chiudesse il comune. In secondo luogo, Renzi credette che fosse sufficiente affidare all’Anac di Raffaele Cantone la gestione delle cose per arrivare alla fine dei lavori. E così siamo arrivati a oggi, con l’ennesimo presidente del Consiglio che annuncia che l’opera entrerà sì in funzione, ma inevitabilmente nella primavera di due anni dopo.

 

Ha senso abbandonare in fondo alla laguna un’opera costata cinque miliardi di euro senza neanche sapere se funzionerà o meno? Certamente no. Ma la verità è che metterci mano adesso, dopo anni di immobilismo, è diventata un’impresa titanica. La Mantovani per esempio, colosso veneto delle costruzioni che rilevò da Impregilo la quota di maggioranza del Consorzio, ha difficoltà economiche, così come diverse altre società che negli anni hanno lavorato al Mose. Speriamo che dopo la passeggiata in piazza San Marco di mercoledì pomeriggio il presidente Conte si sia reso conto che per Venezia è ormai necessaria una soluzione forte come per Taranto. Sembrerà un controsenso, ma nonostante quanto è accaduto in passato per il Mose è necessario pensare a uno scudo penale sul modello di quello dell’Ilva.

 

Che fare allora? È certo che chi è al lavoro oggi nei cantieri andrebbe definitivamente escluso, perché sta dimostrando di non essere in grado di portare a termine l’opera. Ma non è pensabile che altre aziende, italiane o straniere (gli olandesi per esempio sono bravissimi a costruire dighe), decidano di prendersi la responsabilità di impegnarsi su un’opera di tali dimensioni, già quasi completamente costruita da altri, senza avere alcuna garanzia giudiziaria se le cose dovessero comunque andare male. L’acqua alta dell’altro giorno ha forse il merito di mostrare che è arrivato il tempo di un vero gesto di coraggio da parte della politica: chiudere per sempre il Consorzio Venezia Nuova e aprire finalmente la salvaguardia della laguna al mercato internazionale. Qualcuno che raccolga la sfida di mettere al riparo Venezia dalle acque alte eccezionali, e anche i molti denari per la gestione e la manutenzione dell’opera, si troverà certamente.

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