L'intraprendenza salverà l'Italia che si disgrega. Un esempio storico

Matteo Righetto

Guardare al passato per capire come risolvere i problemi delle democrazie occidentali. Il caso di Pietro Querini

Cosa c’entra il viaggiatore veneziano del Quattrocento Pietro Querini con l’economista americano Todd Buccholz? Più di quanto si potrebbe immaginare. Nel saggio “The price of prosperity”, uscito quest’anno, Buccholz ha analizzato quelli che a suo modo di vedere sono i principali problemi delle democrazie occidentali, proponendosi di indicare alcune soluzioni rispetto al loro inesorabile declino culturale, economico e sociale. Secondo l’ex responsabile economico della Casa Bianca durante la presidenza di G.W. Bush, tra i fattori di destabilizzazione che stanno portando la nostra civiltà a una graduale disgregazione vi sono: il calo demografico, il commercio globale, l’aumento del debito pubblico, il crollo dell’etica del lavoro e il declino del patriottismo. In breve, quando una nazione ricca comincia a disgregarsi, la gente non soffre la fame. Semplicemente, smette di alzarsi presto la mattina per preparare la colazione ed è sempre meno disposta a trasferirsi da una città all’altra per trovare un lavoro. Per Buccholz il decadimento dell’etica del lavoro è contagioso così come è contagioso il decadimento del patriottismo, al punto da sostenere che una memoria condivisa e la celebrazione di festività e riccorrenze comuni sono tra gli strumenti più efficaci per contrastare l’entropia delle nazioni. Un paese che non ha consapevolezza della propria storia diventa una massa informe di individui, anziché una nazione.

E tenere insieme una nazione multiculturale è ancora più difficile, poiché se noi stessi per primi non coltiviamo una memoria comune e non abbiamo valori collettivi da condividere, come possiamo pretendere che gli stranieri che giungono da noi possano riconoscerci una identità culturale con la quale confrontarsi e nella quale integrarsi? Unica possibilità per porre rimedio a questi problemi esiziali quindi, a detta di Buccholz, è la necessità di ricostruire una memoria collettiva (magari attraverso esempi di personaggi illustri o fatti storici degni di incontrovertibile ammirazione), in quanto unica medicina in grado di ristabilire la salute morale, culturale e quindi anche economica di una società sempre più sfilacciata e arrancante. Una base, insomma. Un denominatore comune che abbia lo scopo di rinsaldare gli animi sotto uno stesso sentire. Per quanto riguarda i valori americani assoluti dai quali ripartire, lui ne elenca segnatamente tre: grit, mobility, confidence. Qualità che in realtà potrebbero riguardare in qualche misura tutti i popoli occidentali, non solo quello americano. Secondo Buccholz però, non soltanto i valori in astratto, ma anche il riconoscimento di campioni umani – di uomini in carne e ossa che tali valori hanno saputi incarnare – possono e devono diventare esempi positivi nei quali far ricadere consapevolmente nuove forme di sano patriottismo collettivo.

E per l’Italia e gli italiani? Oltre a queste tre qualità, mi domando, quali potrebbero essere i caratteri valoriali, le attitudini, i talenti, le qualità intrinseche, i tratti nazionali su cui puntare per una rinascita culturale ed economica del nostro paese? Ragionando intorno ai termini mobility e confidence, ma soprattutto intorno al significato di grit (che potremmo tradurre in italiano con: grinta, perseveranza, tenacia, caparbietà, combattività) e alle sue possibili sfumature semantiche, sono giunto alla conclusione che tra i numerosi valori che ci contaddistinguono nel mondo vi è innegabilmente quello dell’intraprendenza (sfatiamo il mito banale della creatività come caratteristica esclusiva de noantri), cioè quella qualità che riguarda l’attitudine a ideare e attuare nuove attività, l’audacia nell’escogitare e tentare imprese rischiose, la capacità di districarsi anche in situazioni difficili o avverse, il fatto di possedere spirito di iniziativa. La nostra storia economica nazionale, passata e recente, ne è piena.

Ed è proprio a questo punto che mi è venuto in mente forte e distinta la storia di un archetipo pazzesco: Pietro Querini, gentiluomo, navigatore e uomo d’affari veneziano poco conosciuto ai più, ma vero campione di uno straordinario spirito di intraprendenza caratteriale, economica e culturale che lo ha portato a compiere un viaggio epico ma che tuttavia a un certo punto divenne tragico. Già, perché oltre che di grit, mobility e confidence, costui è stato protagonista di un’impresa che definire incredibilmente stimolante per chiunque, nell’ottica del nostro carattere nazionale, sarebbe oltremodo riduttivo. Ciò che sappiamo sul suo viaggio oltre il Circolo polare artico lo dobbiamo soltanto a lui stesso, poiché ne trascrisse una dettagliata relazione oggi conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana in forma di manoscritto originale (cod. Vat. Lat. 5256) e successivamente ripresa dal Ramusio nel XVI secolo. Salpato dall’isola di Candia il 25 aprile del 1431 con sessantotto marinai a bordo della sua nave “Gemma Quirina” carica di vino Malvasia e ogni ben di dio introvabile al di sopra del quarantasettesimo parallelo nord (bombaso, olio di oliva, pepe, rabarbaro, zenzero, zafferano, cannella, noce moscata, aloe, tamarindo, acqua di rose, mirra, sciroppo di cedro, eccetera eccetera), Querini partì verso ponente e poi si diresse verso nord, diretto alle Fiandre, laddove avrebbe dovuto vendere tutto il carico stivato nella Gemma ricavandone una grande fortuna.

Le cose però, come detto, non andarono secondo le sue previsioni e la sorte gli fu presto avversa. Capitò infatti che i venti contrari lo portassero a sud, fino alle Canarie, e solo il 29 agosto la Gemma Quirina arrivò a Lisbona, con notevole ritardo rispetto alla tabella di navigazione e le intenzioni di Querini, che era partito anche per reagire e superare il dolore causatogli dalla improvvisa morte del figlio. Determinato a ripartire per la sua meta, l’uomo d’affari fece riassettare la nave sulle coste portoghesi e a tempo debito ripartì. Era il 14 settembre. Doppiò il capo Finisterre e si diresse verso la Manica, ma i venti impetuosi lo fecero deviare verso ponente per intere settimane, fino a che in novembre si ritrovò coi suoi uomini nei pressi dell’Irlanda, a miglia e miglia di distanza più a ovest rispetto alla sua destinazione. Ma il peggio doveva ancora venire. Eppure lui: avanti tutta. Alla vigilia di san Martino si ruppe inesorabilmente il timone della Gemma la quale, senza alcuna possibilità di essere pilotata, andò alla deriva totale, mentre le giornate invernali si facevano sempre più fredde, buie e tempestose, gli uomini sempre più sconfortati e spossati e il cibo nella stiva sempre più scarso. Dopo mille travagli, el parón Pietro senza demordere riuscì a riportare la calma e la fiducia a bordo, mentre la ciurma credeva di non avere più alcuna possibilità di salvezza. E le notti sempre più lunghe, e le temperature sempre più basse, e le continue piogge e le furie dei venti dei mari del nord sfiancarono i marinai e squarciarono le vele, rendendo la nave definitivamente perduta in balìa delle onde: “In queste tenebre si vedeva alle fiate aprir il cielo con folgori e lampi così risplendenti che ne toglievan la vista degli occhi, e ora ne pareva tocar le stelle, tanto la nave era portata in alto, ora si vedevamo sepolti all’inferno, e imbarcavamo acqua gelida dapartuto.” Allora Querini decise di far tagliare l’albero maestro per rendere la Gemma più leggera, ma a poco servì. Eppure, lui: avanti tutta. Era la metà di dicembre e né lui né i suoi uomini sapevano di trovarsi oramai dispersi tra le isole Fær Øer e l’Islanda.

Nel frattempo molti marinai morirono di stenti, di freddo o di polmonite, e da sessantotto che erano quando partirono da Creta, ne rimasero appena una quarantina, tuttavia anche allora Pietro Querini non perdette mai la speranza di salvarsi e salvare gli altri superstiti e decise così, approfittando di un momento di bonaccia, di far scendere tutti gli uomini sulle scialuppe e su un piccolo schifo, trasferendovi quel poco che era rimasto del carico e abbandonando la nave al suo destino di relitto. Riuscirono a portare con sé soltanto della Malvasia, carne salata, formaggio e biscotti al pepe, e chiaramente la sete cominciò a farsi sentire nelle gole dei naufraghi. Molti bevvero acqua di mare e morirono. Altri bevvero la propria urina, e morirono più lentamente. Ne morivano quattro, cinque al giorno e i sopravvissuti ne gettavano in mare i cadaveri. Passò dicembre e passò il Natale, senza che essi sapessero che era Natale. Le notti disperate sembravano non avere mai fine, cominciò a nevicare e Querini e i suoi uomini resistettero come poterono, scaldandosi gli uni appresso agli altri tra i morsi della fame, della sete e della spossatezza. All’alba del 5 gennaio del 1432 i naufraghi toccarono finalmente una costa, era una terra completamente ricoperta di neve e di ghiaccio. Si trattava dell’attuale isola di Sandö, oltre il Circolo polare artico, dove quei poveri dannati ripararono come poterono per quasi due settimane, accendendo fuochi e mangiando ciò che capitava a portata di mano sulla riva del mare. Rimasero in undici cristiani, pronti a morire così, da soli, lontani da casa e dagli affetti, in una sorta di inferno sulla Terra che non si poteva credere esistesse davvero. Come vittime di un incubo senza fine, gelido e buio, ai confini della Terra. “Or, vedendoci rimaner in tal deserto luoco tutto coperto di neve, soprapresi da grande tristizia, stimavamo che per alcun giorno ne fusse prolungata la morte, ma non perdonata: e ch’altro ci dovevamo imaginare, vedendoci debolissimi, in uno scoglio della detta condizione, senza coperto alcun e senza vettovaglia da mangiare? Pur, inspirati dal Nostro Unico Benefattor, provvedemmo a duoi estremi e deboli remedii: l’uno a fabricar duoi coperti con li remi, duoi gabbanetti e vela; l’altra di tagliar le corbe e i maieri della barca, e far fuoco e riscaldarci. Poi per unico cibo ricorrevamo al lito del mare, raccogliendo buovoli e pantalene, delle quali poca quantità si trovava: con quelli si mitigava alquanto la nostra rabbiosa fame”.

A un certo punto, quando meno se l’aspettavano, i sopravvissuti della ciurma veneziana furono scovati e rinvenuti da due pescatori norvegesi, padre e figlio, i quali con due viaggi avanti e indietro li portarono finalmente in salvo nella loro isola di Røst, dove vennero accolti con una generosità fuori dal comune sia dalla comunità, sia dal prete cattolico di origini tedesche che aveva lì preso possesso della parrocchia. Da quel momento essi rimasero lì e furono ospiti di quei pesctaori di merluzzi e delle loro bellissime donne, così sorridenti e disinibite, fino a che non furono ristabiliti e pronti per far ritorno a casa, ben cento giorni più tardi. In quel periodo, fino a primavera, Querini e gli altri dieci superstiti furono coccolati e curati ed ebbero l’occasione di imparare molte tecniche della pesca utilizzate da quelle parti oltre a diverse affascinanti consuetudini così bizzarre e stravaganti rispetto a quelle “nostrane”, compresa quella, ritenuta molto interessante dal gentiluomo veneziano, di far essiccare i grossi merluzzi decapitati impilandoli su delle impalcature di legno esposte al vento freddo del nord, per ottenerne così una più duratura conservazione. “In codesta isola prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci chiamati stocfisi. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e spezie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna”.

Nella primavera del ’42 Pietro Querini aveva perso tutto. Ma proprio tutto. Eppure quando ventuno mesi dopo la sua partenza fece finalmente ritorno a casa via terra, tra lo stupore di chi lo riteneva morto o scomparso per sempre, non pensò nemmeno per un momento di ringraziare Dio e fermarsi, ma al contrario si diede subito da fare con caparbietà, intelligenza e appunto intraprendenza per ottenere un finanziamento: un prestito di soldi per una nuova, importante spedizione che secondo lui sarebbe stata foriera di un enorme fortuna commerciale. Ai banchieri veneziani, a quelli londinesi e a numerosi vescovi tedeschi e italiani che incontrò durante il suo viaggio di ritorno, Querini spiegò per filo e per segno la geniale tecnica di conservazione dello stoccafisso che i pescatori adottavano a Røst, convincendoli che quel pesce, la cui perfetta conservazione permetteva di consumarlo anche a mesi di distanza dalla sua pescata, sarebbe stato l’ideale per le severissime diete quaresimali e penitenziali nei numerosissimi conventi, monasteri e abbazie disseminati ovunque in lungo e in largo per l’Europa cristiana, anche quelli più lontani dal mare o inerpicati sulle montagne. E così Querini, campione assoluto di intraprendenza, ottenne i soldi per ripartire più volte verso Røst e farvi ritorno con ingenti carichi stivati di stoccafisso essiccato proveniente da quello stesso mar norvegese che soltanto pochi mesi prima era stato per lui la porta dell’inferno. Da naufrago che vede la morte negli occhi a geniale commerciante e imprenditore ittico ante litteram. A poco vale dire che perfino il Baccalà alla vicentina, uno dei migliori piatti della gastronomia veneta nonché italiana, non esisterebbe senza tale Pietro Querini. Grit, mobility, confidence, quindi. Ma anche intraprendenza italiana (e veneta). E dite che un po’ di culo non conta? Certo che conta, ovviamente, ma come ci insegna Virgilio: audentes fortuna iuvat. 

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