PA, tra decimazione e privilegio

Marco Valerio Lo Prete

La riduzione dei travet va lenta e per inerzia, senza tagli e a suon di pensionamenti. Economicamente irrazionale, è l’unica via dentro una casamatta impermeabile a merito e buon senso. Renzi s’adegua, o no?

Dall’inizio della crisi, nelle nostre case e nelle nostre piazze, ha “cominciato a sussurrar” un “venticello” mediatico sulle sorti della Pubblica amministrazione, che “nelle orecchie della gente s’introduce destramente, e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar”, per citare Gioacchino Rossini.

 

Un venticello? Più precisamente, due venticelli. Da una parte infatti i media rilanciano continuamente le sollevazioni contro la “decimazione” in corso degli statali, che sarebbe attuata in nome dell’austerity fiscale. Dall’altra gli stessi media raccontano senza sosta di privilegi indicibili e inscalfibili che s’annidano nella Pa, guarentigie su cui si sono infranti tanti disegni riformatori del vulcanico berlusconiano Renato Brunetta, dell’algido tecnocrate Mario Monti e forse anche del rampante Matteo Renzi. Due venticelli solo apparentemente contraddittori tra loro – i travet sono decimati o sono ancora ultragarantiti? – ma che originano dallo stesso luogo e spirano nella medesima direzione.

 

I sindacati sostengono, per esempio, che ai dipendenti pubblici non si possono chiedere più sacrifici di quanti ne siano stati già chiesti dal 2008 a oggi. E con loro si schierano magistrati di ogni tipo, dirigenti e capi di authority varie. Ieri l’economista Tito Boeri, con il suo editoriale su Repubblica enfaticamente intitolato “La decimazione degli statali”, non offriva in realtà molte cartucce ai fautori del nunca mas. Negli ultimi cinque anni il pubblico impiego ha perso 260 mila dipendenti, passando – dice l’Istat – dai 3,58 milioni lavoratori del 2008 ai 3,33 del 2013. Non è una decimazione nel senso letterale del termine, è un calo del sette (7) per cento in cinque (5) anni. Inoltre Boeri riscontrava un paradosso: nello stesso periodo non è altrettanto calata la spesa pubblica totale del paese, che anzi è un po’ aumentata, né la sola spesa per le retribuzioni della Pa (164 miliardi, scesa del 3,2 per cento in cinque anni, secondo l’Istat). Legittimo usare il termine “decimazione”, dunque? Certamente no, se si fa riferimento all’entità dell’antica pratica – introdotta dai Romani per punire i soldati di un reparto colpevole di un grave reato – che comportava la condanna a morte di un soldato ogni dieci.

 

Sarebbe legittimo invece parlare di “decimazione”, se il riferimento fosse alla brutale estrazione a sorte che precedeva la punizione romana. Perché il calo dei dipendenti pubblici in questi cinque anni, invece di seguire una logica di efficientamento, è stato perlopiù il frutto di pensionamenti (che costano, eccome) non seguiti da nuove assunzioni (blocco del turnover) e dell’interruzione dei contratti a termine. Uno snellimento, dunque, economicamente irrazionale (dov’è scritto che alla Pa torni più utile liberarsi di un volenteroso 60enne che di un 40enne indolente?) e socialmente ingiusto (chi ha detto che un 25enne laureato e motivato non debba prendere il posto di un 35enne negligente?). Una decimazione perché casuale, ma questo quasi nessuno lo dice. I governi italiani, di fronte ai mercati turbolenti, non potevano fare di meglio? Limare il molto necessario e salvaguardare quanto di buono c’è nella Pa?

 

No, impossibile, almeno finché non cambierà il secondo venticello di cui sopra, quello che ci parla giustamente di una Pa trasformatasi nel corso dei decenni – in nome di un malinteso egualitarismo – in una casamatta impermeabile al merito e al mercato (osa dire qualcuno) o semplicemente al buon senso. Così diventa impossibile tutto quello che invece accade nel mondo produttivo reale, specie nei momenti di crisi: per esempio, valutare l’operato di un dipendente della Pa, poi premiarlo o penalizzarlo; o giudicare in sovrannumero del personale e licenziarlo. Non solo: a 27 anni da un referendum popolare sulla responsabilità civile dei magistrati vinto e mai applicato, ancora oggi prima di riformare la giustizia si bada al fatto che l’Associazione nazionale magistrati inarchi il sopracciglio oppure no. E se la legge Fornero sulle pensioni va abolita surrettiziamente, è da alcune categorie privilegiate di dipendenti pubblici che si comincia col favoritismo.

 

Risultato? Nella notte della Pa italiana tutte le vacche sono bigie, e ai governi che confrontano mercati turbolenti non rimane che procedere per tagli lineari e inerziali nel tentativo di far quadrare i conti. Il decreto Madia, su cui ieri il governo ha posto e ottenuto la fiducia al Senato, lavora ancora ai margini della casamatta impenetrabile, in attesa di un disegno di legge delega che sia davvero “rivoluzionario”. Nel frattempo, al netto della lagna mediatica, la nostra burocrazia si fa più vecchia e costosa di quelle europee, perde altro smalto e professionalità, diventa sempre più arcigna coi deboli che bussano alle porte della casamatta: imprenditori, cittadini e contribuenti.