Felipe Scolari e i giocatori verdeoro al centro del campo dopo la sconfitta con l'Olanda per 3-0 (foto LaPresse)

Il calcio brasiliano è morto. Risorgerà così

Pierluigi Pardo

Come sempre, il pallone travolge tutto. E alla fine, sì, davvero, possiamo dirlo, è stato bellissimo essere qui. Mescolati, colorati, addirittura felici. Peccato solo l'Italia non abbia partecipato. 

I venditori di caipirinha oggi hanno una faccia strana. Il traffico è sempre folle su Rua Visconde de Pirajà, la strada principale nel cuore di Ipanema. Ci sono cantieri ovunque, marciapiedi sfiniti da lavori eterni per una metropolitana che prima o poi, dicono, arriverà. C'è un vento freddo che spazza le nuvole. E' pur sempre inverno, fanno notare. La musica è finita, gli amici se ne vanno. Lenta la sfilata di accrediti Fifa nel fast track all'aeroporto. Ha vinto la Germania, è passata la paura. Il Corcovado illuminato di albiceleste sarebbe stato un affronto. Una ferita vera a un paese diverso da ogni consueto stereotipo.

 

Il Brasile in effetti è proprio un'altra cosa. Soprattutto da come te lo immagini prima. Qui non sempre i ricchi ti guardano dall'alto. Anzi, le favelas sono spesso appoggiate su salite ripide e guardano da sopra i terrazzi di chi ce l'ha fatta. Delle donne strepitose che rapivano l'attenzione di Oronzo Canà non c'è traccia. Rare eccezioni. La birra è la bevanda nazionale, quasi come in Germania. Il caffè è terribile, come in Germania. E il Mondiale indovinate chi l'ha vinto.

 

Complessivamente, poca joia. Quanto alla bellezza, è ovunque. Feroce e sentimentale, selvaggia e smisurata. Sei solo un punto nell'universo. Anche se fai sport da sempre, come tutti quelli che qui corrono, saltano, giocano a pallone a qualsiasi ora di notte e di giorno, sul lungomare. Anche se sei atletico e preparato, se prendi il deltaplano e provi a solcare il Morro de Dois Irmaos, guardando la forza prepotente dell'Oceano che sbatte sulle piccole isole Cagarras. Bene, per quanto tu sia esperto, sai che una folata di vento ti può spazzare via in un istante. Come la Seleçao a Belo Horizonte.

 

Debolezza umana. Puoi chiamarti anche Leo Messi e sentirti depresso. Lontano, criticato, eppure miglior giocatore, secondo una commissione tecnica più attenta al marketing che al pallone. Sembrava potesse essere il suo o comunque il Mondiale delle sudamericane. Lo è stato solo in parte. Ha vinto la squadra più organizzata, più logica, più militare. Argentina e Brasile si sono logorate nella più sudamericana delle rivalità. L'eterna lotta, tutta proiettata al passato, tra Maradona e Pelè. "E' più forte Diego" oppure "no, è solo uno sniffatore". Punti di vista contrapposti. E intanto gode la Merkel.

 

E' finita zero a zero, infatti, la sfida tra centomila argentini arrivati a Rio De Janeiro per una festa che non c'è mai stata e centonovanta milioni di brasiliani sospesi tra la rabbia verso Djlma e la malinconia per l'umiliazione di Belo Horizonte. Il 7-1 accettato con autocritica, senza nessuna rabbia verso i tedeschi (ma chi l'ha detto che dovevano fermarsi?), il 3-0 con l'Olanda, una estrema unzione. Il calcio brasiliano è morto. Risorgerà dalle piazze, dalle strade, dalle spiagge soprattutto, dove anche adesso che è sera ci sono bambini con maglie tutte uguali, e birilli, e paletti e preparatori dei portieri più in là. Mentre il pomeriggio di domenica, a Copacabana e Ipanema ci sono più palloni che sdraio. Si joga bonito, senza porte, come facciamo noi a pallavolo in acqua, cercando di fare più tocchi possibile, cercando soprattutto la giocata di classe, la Grande Bellezza, Zico in ognuno di noi.

 

Difficile che il senso estetico di questa gente potesse venire appagato da Fred e Bernard, da Paulinho e Jo. Impossibile che il Brasile di questa generazione mediocre, terra di mezzo, dopo Ronaldo, Ronaldinho e Kakà, potesse trovare la sua strada, soprattutto dopo che le vertebre di Neymar hanno fatto crac. Scolari alla fine si è dimesso, e questa è l'unica  buona notizia. Ora arriverà un nuovo allenatore (Tite, ex Corinthians, o Leonardo) per provare a costruire quasi da zero, dopo la vertigine mancata del mondiale in casa (ma non è che porta sfiga?). Rimarranno questi stadi da sogno. Alcuni (tipo l'Arena Amazonas di Manaus), saranno praticamente inutilizzati. Copa pra quem?

 

Già, la rivolta, mancata. Ci aspettavamo più molotov e lacrimogeni. E invece addosso ci restano attaccate altre cose. Il mondo visto dal Corcovado, fremito sfuggente, e ancora certe facce perdute e perdenti, povere e solitarie. Certe ciabatte disperate, l'odore della fogna in favela che appena piove si fa sentire, la miseria estrema impastata con lo sfarzo. Elicotteri e ville con cancelli e piscine e guardiani, fuori. Portieri volanti (nel senso da un palo all'altro, straordinari) e manifestazioni di piazza che non sono mai riuscite a prendersi le copertine. Rimaste a margine, confinate nelle brevi, spinte a distanza di sicurezza dagli stadi.

 

Uno scenario completamente diverso da quello di un anno fa, in Confederations Cup. Difficile pensare che siano stati risolti i problemi (i fischi per Dilma sono sempre lì) o che i contestatori abbiamo cambiato idea. Semplicemente la forza del Mondiale è stata enorme e si è presa le copertine, ha trascinato nella magia, ha distratto le menti. Come sempre, il pallone travolge tutto. E alla fine, sì, davvero, possiamo dirlo, è stato bellissimo essere qui. Mescolati, colorati, addirittura felici. Peccato solo l'Italia non abbia partecipato. 

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