Peshmerga curdi combattono a Tikrit (Foto Ap)

A contenere califfi e iraniani c'è solo l'alleanza Israele-Kurdistan

Carlo Panella

I curdi accelerano la creazione di uno stato indipendente, a breve un referendum. La Turchia non s’oppone.

Roma. Nasce uno stato curdo nel nord dell’Iraq appoggiato – o quantomeno tollerato – dalla Turchia e alleato di Israele. E’ questa la conseguenza dell’implosione dell’Iraq sotto la pressione dello Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi e dell’assenza di una strategia di reazione da parte degli Stati Uniti di Barack Obama che ha di fatto consegnato all’Iran il controllo sul governo di Baghdad. La nascita di questo nuovo stato che rivoluzionerà gli equilibri del medio oriente è stata preannunciata pochi giorni fa dal presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani che ha indetto un referendum dall’esito scontato. E’ stata una decisione improvvisa, che rovescia la tradizionale prudenza di Barzani nel concretizzare il sogno di uno stato curdo, tanto che ha più volte affermato: “L’indipendenza del Kurdistan è un progetto di lungo periodo, occorre riflettere in questo senso sul come e quando procedere. Attualmente lavoriamo per il rafforzamento dell’autonomia per cui c’è ancora da fare”.

 

La svolta è stata provocata da tre fattori: il collasso dell’esercito iracheno a fronte dell’avanzata dello Stato islamico; la conseguente conquista da parte dei pshmerga curdi della città di Kirkuk, con annessi i campi petroliferi e la prova che i pshmerga curdi sono stati e sono l’unica forza di terra in grado di contrastare lo Stato islamico in Iraq. Nonostante questo rapido e improvviso consolidamento del controllo su tutto il Kurdistan, non più contrastato dalle autorità di Baghdad, Barzani ha atteso settimane prima di proclamare il referendum: in accordo con l’altro leader curdo Jalal Talabani dell’Upk, ha deciso di tentare la carta della formazione di un nuovo governo di unità nazionale a Baghdad. Un esecutivo in cui esercitare la propria funzione di contrappeso alle pretese autoritarie del premier, Nouri al Maliki, e dei partiti sciiti, favorendo, come ha sempre fatto, l’ingresso nell’esecutivo dei partiti sunniti che fanno riferimento a Tariq al Hashemi, ex vicepresidente condannato a morte da al Maliki e salvato dal capestro da Barzani stesso che ne ha organizzato la fuga e l’esilio in Turchia. Ma quando al Maliki ha respinto una soluzione unitaria della crisi irachena, valutando insignificanti  – come sono state – le pressioni in questa direzione degli Stati Uniti e ha scelto di consegnare la difesa dall’avanzata dello Stato islamico ai pasdaran iraniani e ai missili russi, Barzani e Talabani hanno compreso di non avere alternativa alla separazione rapida dei destini del Kurdistan dall’Iraq.

 

E’ una soluzione drastica, pubblicamente auspicata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che conosce il contesto perché Israele ha stretti rapporti di alleanza militare con Barzani e Talabani sin dagli anni Novanta (il Mossad è di casa in Kurdistan). E questa soluzione non è avversata frontalmente – il fatto è di estremo rilievo – dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Due giorni fa Barzani ha detto: “Ankara non si opporrà a una dichiarazione d’indipendenza dello stato curdo. Ci sono stati progressi significativi: Erdogan ha visitato Erbil e questo è un passo storico”. Alla domanda se la Turchia o gli Stati Uniti si potrebbero opporre all’indipendenza dello stato curdo, Barzani ha risposto che non si aspetta “appoggio né resistenze” da parte loro. Di fatto, mentre il vicepremier turco, Bülent Arinc, ha spiegato la scorsa settimana che Ankara non sosterrà mai un Iraq diviso, il portavoce dell’Akp, il partito di Erdogan, Huseyin Celik, ha dichiarato invece che “la Turchia considera i curdi suoi fratelli” e che “la divisione dell’Iraq è inevitabile”.

 

Questo risultato sorprendente è il frutto della strategia di Barzani e Talabani che hanno esercitato una determinante pressione sui curdi turchi grazie alla quale Erdogan ha potuto avviare un anno fa una – pur complessa – road map per terminare la guerra con il Pkk curdo-turco di Abdullah Ocalan che ha fatto 35 mila vittime in  trent’anni. Ma la probabile condiscendenza di Erdogan alla nascita di uno stato curdo ha anche solide ragioni economiche. Dopo la caduta di Saddam Hussein, Barzani e Talabani hanno trasformato il Kurdistan iracheno in un comparto dell’economia turca. I nuovi aeroporti di Arbil e a Sulaymaniyya sono di proprietà di società turche; l’80 per cento del cibo e dei vestiti proviene dalla Turchia e il 60 per cento delle 1.217 aziende straniere attive in Kurdistan è turco. Il governo di Ankara valuta che nel 2015 gli investimenti di aziende turche nel Kurdistan iracheno raggiungeranno i 50 miliardi di dollari. Non solo: da due anni il Kurdistan iracheno ha assicurato alla Turchia preziose forniture dirette di petrolio (circa 100 mila barili al giorno), nonostante la reazione del governo di al Maliki che ha più volte minacciato ritorsioni militari.

 

Un “santuario” di mediazione

 

Il futuro stato curdo continuerà a svilupparsi dentro l’area economica della Turchia – campi petroliferi di Kirkuk inclusi – e soprattutto assicurerà un’azione politica moderata sui curdi turchi, su quelli siriani e su quelli iraniani. Il Kurdistan iracheno funge (con concreti aiuti di Israele) da “santuario” sia per il Pkk dei curdi turchi sia per il Pyd dei curdi siriani (che ha istituito un governo autonomo nella regione settentrionale della Siria), il cui leader Saleh Muslim ha incontrato nei mesi scorsi il ministro degli Esteri di Ankara  Ahmet Davutoglu, sia per il Pjak di Abdul Rahman Ahmadi che conduce una guerra contro l’Iran che è costata a Teheran enormi perdite (inclusa la morte di alcuni generali dei pasdaran). Salvo contrattempi – sempre possibili in medio oriente – un nuovo asse Gerusalemme-Kurdistan costituirà l’unica trincea solida contro l’espansione dei terroristi dello Stato islamico e per il contenimento dell’espansionismo di Teheran sempre più contrastato nel Kurdistan iraniano. Intanto la Casa Bianca sta a guardare, ininfluente.