Barack Obama (Foto Ap)

La “neutralità” in Iraq

Tutto quello che Obama sapeva e ha ignorato sullo Stato islamico

Paola Peduzzi

Da novembre 2013 sono arrivati molti allarmi alla Casa Bianca. Come in Siria, le prove non sono bastate.

Roma. “E’ falso sostenere che nessuno ha saputo prevedere un disastro come la caduta di Mosul” in Iraq, dice Ali Khedery, che ha lavorato come consigliere all’ambasciata americana a Baghdad, a Eli Lake, giornalista esperto di intelligence e di affari militari che lavora al Daily Beast. Gli esperti sapevano che lo Stato islamico stava crescendo in Siria e in Iraq e che le Forze armate irachene non sarebbero riuscite a fermarlo, e lo hanno comunicato a più riprese alla Casa Bianca. Cioè: lo Stato islamico non è una sorpresa per Barack Obama, anzi, il presidente americano ha avuto più di un’occasione per avviare operazioni di contenimento, ben prima che il leader dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, si presentasse pubblicamente al mondo islamico – se davvero era lui, venerdì scorso, nella moschea di Mosul – e chiedesse obbedienza al suo califfato. Eli Lake ripercorre la cronologia dei “warning” arrivati a Obama, i più recenti: primo novembre 2013, il premier iracheno Nouri al Maliki in visita a Washington chiede militari americani (che aveva cacciato in malo modo due anni prima) per imparare a fare attacchi aerei mirati e contenere “l’insurrezione sunnita”. Dodici giorni dopo, Brett McGurk, il più alto in grado del dipartimento di stato americano a Baghdad, consegna al Congresso un documento che racconta la brutalità e la voracità dello Stato islamico che “s’avvantaggia di un contesto operativo agevole grazie alla debolezza delle Forze armate irachene e delle loro misere strategie operative, oltre che delle lamentele popolari, mai prese in considerazione, nelle province di Anbar e Ninive”. Entrambi gli allarmi non sono stati ascoltati, ma quando Obama ha infine deciso di finanziare Maliki con armi sofisticate per il valore di circa 11 miliardi di dollari, non si è preoccupato di legare i fondi a una qualche richiesta imposta a Baghdad (richieste che ora Washington fa a gran voce, senza essere più ascoltata). Secondo Eli Lake, il problema per il presidente è che non c’è mai stata una via percorribile in Iraq, e così la strategia s’è imposta da sola: fingere di non vedere.

 


E’ il motivo per cui anche l’attività di intelligence è stata ridotta e diffidente: Maliki concedeva ai droni americani di fare una ricognizione al mese e così è stato, anche dopo che è caduta Fallujah, a gennaio, e la minaccia dello Stato islamico è diventata quasi mainstream. Oggi gli esperti dicono che le attività di al Baghdadi – uomo abile al quale nemmeno i suoi davano molta fiducia, in tutte le biografie si parla di “oscuro funzionario” del jihad, un burocrate diventato leader per caso – erano facilmente visibili e controllabili, se ci fosse stata la volontà politica di accettare poi le conseguenze delle scoperte fatte, e reagirvi. E’ il senno di poi? Non proprio. Questo stesso meccanismo – fare finta di non vedere – è stato applicato alla Siria, che non a caso è il luogo in cui lo Stato islamico ha potuto diventare forte e popolare, in cui ha sperimentato le sue tattiche brutali, in cui  ha creato un tesoretto, in cui ora fa sfoggio di tutte le armi rubate agli americani.

 

Quando ci fu in Siria l’attacco con le armi chimiche il 21 agosto del 2013, quello della linea rossa violata per intenderci, l’intelligence ci mise più tempo del previsto a comunicare a Obama quel che stava accadendo quasi volesse, così scrisse il Wall Street Journal, “proteggere” la Casa Bianca dalle brutte notizie – e dall’eventualità funesta di una guerra. Il non intervento ha permesso al conflitto in Siria di continuare, rafforzando i duri, come il regime di Assad e lo Stato islamico, e indebolendo i ribelli siriani. Oggi siamo di nuovo di fronte a un momento-verità: Stephen Rapp, l’inviato per crimini di guerra del dipartimento di stato, ha avuto modo di visionare il materiale fotografico fornito all’intelligence occidentale da “Caesar”, fotografo scappato dal regime di Assad (il Foglio ha pubblicato alcune di quelle foto il 22 gennaio scorso), e ha detto, parlando all’Atlantic Council il 3 luglio scorso: “Non sono abituato a vedere prove tanto schiaccianti”. Di che cosa? “Di un tipo di sistematica crudeltà che non vedevamo dai tempi del nazismo. Stiamo parlando di più di diecimila persone uccise in prigione dal 2011 al 2013, soprattutto uomini, ma anche uomini davvero giovani, ragazzi, donne”. Quando i 28 mila scatti di Caesar divennero pubblici a gennaio, proprio durante i colloqui di Ginevra 2, i russi chiesero di poterli visionare in modo indipendente e parlarono di un’azione di propaganda occidentale contro la pace che si stava negoziando a Ginevra con russi, siriani e iraniani alleati. Gli stessi che ora combattono  contro “la minaccia comune” dello Stato islamico, approfittando della passione tutta obamiana per la “neutralità”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi