Abu Bakr al Baghdadi durante il sermone di venerdì scorso alla moschea di Mosul. Da mesi il leader dello Stato islamico cercava l’occasione giusta per mostrarsi, e un errore tecnico ha quasi rischiato

Il califfo bling bling

Paola Peduzzi

La passione per il calcio, l’ascesa controversa, l’urlo di guerra su Twitter e l’ambizione di al Baghdadi

Abu Bakr al Baghdadi si è mostrato, e tutto è cambiato. Fino a venerdì, prima che al Baghdadi parlasse nella moschea di Mosul e delineasse il suo progetto politico con accuratezza da studioso, quale è, la sua figura era avvolta nel mistero. Si narrava di un oscuro passato da funzionario del jihad, il più bravo a giocare a calcio della sua moschea a Samarra, una leadership raggiunta quasi per caso, con la fortuna di avere un giardino in cui i corrieri di al Qaida in Iraq lasciavano i loro pacchetti senza essere intercettati e approfittando della distrazione dell’intelligence internazionale, che ancora oggi non sa dire con precisione chi è al Baghdadi (le autorità irachene continuano a sostenere che l’uomo col turbante che ha parlato a Mosul non sia il leader dello Stato islamico). Che poi nel frattempo non è nemmeno più lui, non è più solo Abu Bakr al Baghdadi al Qurashi al Husseini (e quel “al Qurashi” forse se l’è inventato di sana pianta, per mostrare una discendenza dal Profeta Maometto inesistente): oggi è Ibrahim Awwad al Badri, o il califfo Ibrahim, il capo di quell’enorme califfato dichiarato ufficialmente il 29 giugno scorso, tra la Siria e l’Iraq, uno stato con un leader e una gerarchia e un esercito e un consenso popolare. “Che il mondo sappia che stiamo vivendo in una nuova èra”, aveva detto al Baghdadi il giorno della nascita del Califfato, che era anche il primo giorno di Ramadan, perché nulla, nessun simbolo nessuna ispirazione, è lasciato al caso nell’èra del califfato.

 

C’è una mescolanza di modernità e di tradizione nel califfo Ibrahim che ha fatto sì che in questi giorni non si parlasse d’altro che del suo orologio. Lui chiede l’ubbidienza di tutto il mondo musulmano in un discorso accurato, vestito con il caffettano e il turbante neri della tradizione degli Abbasidi, i califfi di Baghdad, l’età d’oro dell’islam, e il resto del mondo impazzisce per l’orologio che sbuca dalla manica del braccio destro. E’ un Rolex, no un Sekonda, no un Omega, è lo stesso che porta James Bond, costa oltre seimila dollari, no meno, no di più, ma ha fatto apposta a mostrarcelo, non ti si alza la manica da sola, voleva farci vedere che è ricco e potente e pronto a sfidarci e spianarci, noi che mastichiamo Nicorette annoiati e ci mettiamo gli occhiali a specchio. Non era vero niente, naturalmente: è un orologio cinese Shenzhen Jingri, costa venticinque dollari sul sito Alibaba, serve per guardare l’ora, e semmai la sua ostentazione – che a questo punto pare sì casuale – colloca il califfo nella moda cheap and chic, di cui sono maestre le signore inglesi, a partire dalla principessa Kate. Modernità alla portata di tutti, che poi è la sintesi del progetto del Califfato, con la sua strategia comunicativa spietata e impeccabile, con la sua capacità di raccogliere fondi con le armi e con la fascinazione (più con le prime, è pur sempre un gruppo di terroristi, non di manager da start-up), con la sua mossa di marketing finale: questo progetto ha bisogno di una faccia, eccola qui. Noi pensavamo all’orologio e non ci chiedevamo com’è che un uomo sulla cui testa pende una taglia da dieci milioni di dollari, il “most wanted” del medio oriente, abbia potuto creare, nel giorno del suo svelamento, uno schermo su tutta l’area della moschea di Mosul (non funzionavano più i cellulari), abbia potuto arrivare senza preavviso, con i suoi adepti seduti disciplinati in prima fila, abbia potuto parlare per 40 minuti e poi abbia potuto andarsene, con lo status da califfo e il sostegno popolare che serve a dare forza al suo piano (si dice che ora è lui a scrivere i sermoni della preghiera del venerdì in tutta Mosul).

 

Bastava badare alle parole, in effetti. Si chiama Stato islamico, ed è uno stato. In questi giorni sono circolate immagini dei passaporti del Califfato stampati nell’ufficio dell’anagrafe di Mosul, ma era una bufala messa in piedi da al Arabiya, al momento, com’è tradizione, i passaporti, nel califfato, vengono bruciati. L’obiettivo territoriale, come si deduce da tutte le mosse del califfo Ibrahim (prima di parlare si è pulito la bocca con il miswak, lo spazzolino per l’igiene orale prescelto da Maometto, altro che orologio), è quello del Califfato della tradizione, che si estese dalla Libia all’attuale Iran, dall’Ottavo al Dodicesimo secolo: la capitale cambiò nei decenni, ci fu Samarra, che è la città in cui al Baghdadi è nato nel 1971, ci fu Raqqa, la città siriana che fino alla caduta di Mosul era considerata il quartier generale dello Stato islamico, ci fu naturalmente Baghdad, che è il prossimo obiettivo dell’avanzata del califfo.

 

Ci sono dei confini, c’è un’identità ben chiara nella tradizione islamica, c’è uno statista. “Sono il ‘wali’ (leader, ndr) che vi governa, ma non sono meglio di voi, quindi se vedete che sono nel giusto, assistetemi. Ma se vedete che sbaglio, consigliatemi e riportatemi sulla giusta via, e obbeditemi fino a che io obbedisco ad Allah”, ha detto al Baghdadi. Il wali, nella sua prima apparizione pubblica, ha voluto dimostrare che il tempo di rimanere nascosti è finito, il Ramadan del 2014 diventa così non soltanto il consueto viaggio spirituale, ma anche una celebrazione del jihad, alla quale tutti sono chiamati dal califfo in persona, cui è necessario sottomettersi. Quando ha parlato del Califfato, al Baghdadi si è anche premurato di creare una frattura definitiva con al Qaida, quando ha detto che il dovere dei musulmani di dichiarare un califfato è “andato perduto per secoli”. Osama bin Laden aveva il progetto finale di un grande Califfato ma pensava che non potesse essere instaurato fino a che i governi sostenuti dall’occidente non fossero stati sconfitti e fino a che i musulmani non fossero stati pronti per le regole religiose appropriate. Nel giro di poche settimane, quell’idea è stata rottamata, al Baghdadi invita gli islamici a viaggiare nel suo nuovo stato, mentre su Twitter i suoi esperti seguaci prendono in giro apertamente l’erede di Bin Laden, quell’Ayman al Zawahiri che non ha mai liberato una grande città islamica con il jiahd, e figurarsi se ha potuto farci una preghiera – un sermone – in pubblico.

 

La comunicazione è quel che rende il califfo la star del nuovo stato islamico. Una volta c’erano i messaggi di odio cavernosi, sfondi scuri, bandiere, voci dall’oltretomba, da nascondigli sulle montagne in cui si dirigeva un gruppo che non si sapeva nemmeno più riconoscere. Oggi ci sono cortometraggi che riprendono i film hollywoodiani che parlano di guerra al terrore, “Zero Dark Thirty” o “The Hurt Locker”, citazioni che agli occidentali suonano come una minaccia e che per i jihadisti sono l’ennesimo sberleffo, mentre il messaggio globale è la chiamata al jihad e l’obbedienza al califfo. I follower su Twitter dello Stato islamico sono stati dotati, durante la conquista di Mosul, di una app, la Dawn of Glad Tidings, che permette di inondare i social media di notizie sull’avanzamento del Califfato, di video di esecuzioni di massa e di esecuzioni singole, di immagini di veicoli militari rubati agli americani, di minacce ai soldati iracheni: guardate un po’ qui quel che vi succede se per caso ci ostacolate, di gente che si scava la tomba prima di essere ammazzata, ma anche di attività di welfare islamico, la distribuzione di cibo e le istruzioni per non restare per troppo tempo senza elettricità o acqua. Ora la propaganda si concentra sul prossimo obiettivo: “Baghdad, stiamo arrivando” è l’urlo di guerra che viaggia su Twitter, un urlo mediatico che, secondo Martin Chulov, reporter di guerra del Guardian nella capitale irachena, è ben più forte delle reali capacità dello Stato islamico di sfondare Baghdad difesa dal premier Nouri al Maliki e dai suoi tanti e bellicosi alleati, iraniani e russi – ma nessuno è davvero disposto a capire se abbia ragione Chulov oppure no. Un dettaglio: la macchina della comunicazione perfetta si è ironicamente inceppata proprio nel momento più importante, quello del califfo Ibrahim. Secondo fonti del Foglio, il video del sermone a Mosul non doveva uscire sabato, è stato caricato sull’archivio e da lì è trapelato, all’improvviso, creando un buco nella sicurezza: in ventiquattro ore non poteva essere andato troppo lontano dalla moschea, il califfo, correva un rischio davvero grosso.

 

Non che l’effetto dello svelamento di al Baghdadi sia andato perduto. Anche perché era da dieci mesi che il capo dello Stato islamico progettava la conquista di Mosul e allo stesso tempo cercava una photo opportunity adatta per lo svelamento. Quando è arrivato, all’inizio di giugno (ma secondo molti era lì da maggio), in città è andato personalmente ad aprire le porte della prigione Badush per liberare i prigionieri sunniti. Pareva un momento simbolico, ma evidentemente non abbastanza. Poi è arrivata l’occasione giusta, la grande moschea di Mosul, famosa in tutto il medio oriente, simbolo della più grande città mai conquistata dalle forze jihadiste. E’ stato il coronamento del progetto di un ragazzo piccoletto che ha sempre dovuto portare gli occhiali, ci vedeva malissimo (avrà le lenti a contatto ora?), che ha vissuto a Samarra, ha studiato Teologia, è poi arrivato a Tobchi, nella periferia ovest di Baghdad, stava sempre nei pressi della moschea, amava il calcio (dev’essere per questo che i video con sfondo calcistico inventati dalla propaganda dello Stato islamico in occasione dei Mondiali sono così precisi), teneva la preghiera del venerdì quando l’imam principale non c’era “perché aveva una bella voce”, come ha detto un suo vicino a Ruth Sherlock del Telegraph che è andata a Tobchi scoprendo che c’è stata una retata da parte di Maliki, tutti quelli che avevano qualche connessione con al Baghdadi sono stati portati via e probabilmente uccisi. Ha studiato la legge della sharia, dicono che una volta aveva visto uomini e donne che ballavano a una festa di matrimonio e si era fermato per urlare: “Uomini e donne non possono danzare assieme, non è conforme alla religione”, e aveva fatto spegnere la musica. Amava la vita di famiglia, si è sposato con una donna (forse siriana), hanno un figlio che dovrebbe avere circa undici anni, è stato in prigione e poi, nel 2010, nessuno sa bene secondo quali logiche, “c’erano molte persone gerarchicamente più avanti di lui”, dicono, un consiglio islamico nella provincia di Ninive composto da undici persone l’ha votato come leader di al Qaida in Iraq: nove voti a favore, un plebiscito. E’ sua l’intuizione di combattere in Siria contro il regime di Assad per conquistare fondi e territorio, è sua la regola che tutte le missioni troppo pericolose devono essere abortite, è sua l’idea di predisporre un organigramma preciso, sa sempre chi deve fare cosa, è sua la strategia di trattare il Califfato come un’azienda, con un budget e con una marketing unit. E’ tutta nostra, invece, la consapevolezza che il califfo Ibrahim è l’uomo più sottovalutato del terrorismo moderno.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi