Anna Wintour e Donatella Versace alla presentazione di “Heavenly bodies” (foto Fabiana Giacomotti)

Ravasi, Wintour e la moda dei corpi celesti

Fabiana Giacomotti

Presentata a Palazzo Colonna “Heavenly bodies” la mostra che aprirà a maggio al Metropolitan Museum of Art’s Costume Institute di New York. Il cardinale: “Dio è stato il primo sarto”. In platea la direttrice di Vogue annuisce

La capitale è bloccata da pochi centimetri di neve, da Ciudad de Mexico la sindaca Virginia Raggi ha mandato l’esercito a spalare non si sa bene che cosa visto che è già uscito il sole e il temutissimo ghiaccio s’è sciolto come i proclami del Campidoglio, ma Anna Wintour riesce ad arrivare alla conferenza stampa prevista a Palazzo Colonna per la presentazione di “Heavenly bodies” (corpi celesti o divini, vedete voi) la mostra di maggio al Met con i suoi consueti dieci minuti di anticipo.

 

Metà degli invitati è ferma fra aeroporti e stazioni, ma la Galleria Colonna è già stata allestita da tre giorni con le preziosissime mitre e casule che il Vaticano, per intercessione del fondo Blackstone generoso sponsor della mostra, ha accettato di mettere a disposizione insieme con altri quaranta paramenti straordinari (da perdere la testa il piviale ordinato da Maria Carolina d’Austria per Papa Pio IX, ricamato per quindici anni da sedici donne e un inedito che non mancherà di mandare in sollucchero il mondo maschile della moda, da sempre sedotto dalla sontuosità d’Oltretevere). Il ritardo consentito viene dunque limitato a venti minuti e a un rapido giro di bicchieri d’acqua, poi il direttore di Vogue America siede accanto a Donatella Versace, partecipata di pregio del fondo Blackstone, e non apre più bocca se non per annuire, nelle pause giuste del discorso, al cardinale Gianfranco Ravasi che, invece, impartisce una lezione magistrale di simbologia del vestire.

 

Per chi, come tanti di noi, si scontra da decenni con quella micidiale combinazione di pauperismo d’accatto e politicizzazione che nonostante le evidenze dei fatturati, del milione e rotti di lavoratori impiegati nel settore, del traino per le nostre città, rende tuttora la moda un settore tenuto in scarsa considerazione, se non snobbato tanto dalle alte cariche dello stato come dalla “ggente” come inutile, fatuo, sentina di ogni nequizia eccetera,  le parole di Ravasi suonano come un balsamo. Non vorremmo dire che il cardinale abbia finalmente seppellito l’adagio più imbecille del mondo, il famoso “abito che non fa il monaco” e di cui tutti abbiamo intuito almeno un migliaio di volte la totale falsità, però è proprio quello che vorremmo dire e infatti lo diciamo.

 

“L’uomo è ciò che veste”, esordisce il cardinale adattando Feuerbach, e subito in noi analisti della moda si accende la fiammella della speranza. Quando evoca  la Genesi (3, 21 se voleste andare a controllare) ricordando che “Dio è stato il primo sarto” e che prima di cacciare Adamo ed Eva dal Paradiso Terreste li “rivestì di abiti di pelle” (a tutti piace Lucas Cranach, ma i pittori di ogni tempo sono stati degli sporcaccioni ansiosi di spogliare giovani modelle/i, sappiatelo) siamo ai suoi piedi.

 

Dopotutto nel Deuteronomio è detto che la benedizione di Dio porta “pane e veste” mentre il castigo prevede “carestia e nudità”, dunque e anche a quel versetto Ravasi deve pensare mentre evoca i “quattro valori simbolici” del vestito: quello morale, legato al pudore e al nascondimento della sessualità; quello sacrale (“tutte le religioni mostrano paramenti sontuosi, che non sono legati alla magnificazione di chi li indossa, bensì al suo ruolo di tramite per il sacro e il trascendente”), quello culturale e, infine, la dimensione sociale del vestire. Ravasi, sorprendentemente, inquadra il punto da linguista, evocando la radice “vestis” da cui discendono tanto il “vestito” quanto l’”investitura”. Sarebbe stato perfetto citare anche l’investimento, ma forse la presenza in sala del “benefattore” della mostra, il presidente di Blackstone Stephen Schwarzman con cattolicissima moglie Christine al seguito, avrebbe reso l’esempio appena fuori luogo.

 

Quando la parola passa al curatore della mostra, Andrew Bolton, che non trova di meglio che citare, nel centro di Roma, la scena del “Roma” di Federico Fellini che tutti gli autoctoni conoscono a memoria, cioè la celeberrima sfilata di moda liturgica miracolosamente vestita da Danilo Donati, l’incanto si è già rotto e si è pronti ad ascoltare le solite litanie sul percorso espositivo: la novità è che la mostra si estenderà dalle sale riservate alle attività del Costume Institute per tutte le gallerie principali del museo, lambendo i sancta sanctorum dell’arte bizantina, con pezzi Dolce&Gabbana riprodotti dai mosaici di Monreale, e medievale, con chiusura in Balenciaga nel chiostro che, senza dubbio, sarà la scelta più azzeccata. La mostra sarà senza alcun dubbio un colossale successo di pubblico. La stupefatta devozione che i protestanti nutrono nei confronti dei cattolici e della loro sensualità gravida di peccato sarà un clamoroso rilancio anche per la doppia anima, modesta e grandiosa, della Chiesa di Roma.

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