GettyImages  

Una fogliata di libri

Il nostro grande niente

Gaia Montanaro

La recensione del libro di Emanuele Aldrovandi edito da Einaudi (200 pp., 17 euro)

"Chissà come sarebbe se, una volta morti, si potesse continuare a esistere, da qualche parte, in compagnia della propria memoria. Sarebbe bello o sarebbe una tortura? E se anche fosse una tortura: è meglio esistere all’interno di una tortura o non esistere proprio?”. Ha tante pieghe, temi e sfumature questa storia di una giovane coppia benestante alle soglie del matrimonio.

Lui muore, subito, in un incidente d’auto e quello che ne segue – almeno nella prima parte del libro, la tua vita senza di me – è il racconto di come “la ragazza dagli occhi grandi” sopravvive a quel lutto e va avanti. Si risposa, si costruisce una famiglia e diventa anziana. Quel “quasi sposo” della sua vita di ragazza diventa una foto sbiadita dentro un cassetto, un ricordo malinconico a cui poter tornare, solo sporadicamente. Lui osserva tutto, come un pensiero che abita la vita che avrebbe potuto vivere con lei ma che non sarà mai. Un pensiero che però soffre, che in fondo non vuole accettare che l’amore della sua vita gli sia sopravvissuto ma che soprattutto la sua futura sposa sia andata avanti. La vita di lei gli sbatte in faccia come, in fondo, tutti siano sostituibili (ma forse questo significa semplicemente vivere, non sostituire ma aggrapparsi a quello che rimane).

E se lui non fosse morto davvero? Se avesse la possibilità di ricominciare dal momento in cui tutto era rimasto sospeso? Ciò accade – è la mia vita senza di te – ma il giovane drammaturgo non riesce più a vivere sapendo di questa sostituibilità, fa fatica a stare nella realtà ma vive in un pensiero che modifica la percezione di essa, che mette in crisi il mondo e la sua relazione. Che sembra ricordargli ogni giorno che ciò che hanno (avuto) è solo un grande niente. Un niente che però ha a che fare con la memoria, con il lasciar andare (o resistere strenuamente dal farlo), con il tempo che passa più o meno velocemente e che – nel suo caso – sgretola il senso, sfilacciandone sempre di più i contorni. 


È un racconto molto innervato nel nostro presente quello di Aldrovandi: parla di relazioni, di dinamiche umane, di aspettative e si interroga – aprendo brevi squarci – sul senso delle cose. Sta nel nostro tempo anche dal punto di vista formale, con una struttura solida e lavorata con cura e con dialoghi attenti (in cui si sente la mano da drammaturgo). È un esordio ambizioso, che tocca un tema difficilmente addomesticabile e che risolve con leggerezza. Spavaldo e vulnerabile, come spesso sono gli inizi.