grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Il tentativo di arginare il fatalismo caro alle nostre società apatiche

Matteo Marchesini

“Dalla catastrofe alla speranza. Un alfabeto politico della vita offesa” (Mandese), è l’ultimo libro di Alfonso Musci

Quando i politici agitano lo slogan del “nuovo umanesimo” è sempre una truffa; quando invece a recuperare l’eredità umanistica, in crisi da almeno un secolo, ci provano gli intellettuali, si tratta in genere di un tentativo velleitario. Ma esistono le eccezioni. Una si trova in “Dalla catastrofe alla speranza. Un alfabeto politico della vita offesa”, l’ultimo libro di Alfonso Musci edito da Mandese, il cui titolo annuncia uno stile aforistico alla Adorno corretto però dalla fiducia ostinata di Ernst Bloch. Attraversando una tradizione che va da Machiavelli ai francofortesi, e da Vico al nodo Croce-Gramsci, Musci collega l’alba della modernità ai problemi di oggi: ruolo di stato e papato, globalizzazione, emergenza ecologica, intelligenza artificiale, criptovalute, pandemia, guerra… Una naturale avidità di lettore, e un’ansia di militante senza partito, si traducono qui nella forma del riassunto-commento perspicuo e rigoroso, che evita conclusioni premature e sincretismi retorici, ma non rinuncia a restaurare parole ormai svuotate di senso come “socialismo” o “utopia”.

 

Musci rifiuta di addomesticare le diversità per assimilarle – come pure è abitudine dello storicismo a lui caro – e invita anzi a far scorta di energie per la prassi proprio riportando alla luce i pensieri in apparenza estranei al nostro presente “onnipresente”, che mentre finge di adorare l’Altro da sé lo rimuove con terrore. Si tratti di automazione industriale o di scenari bellici, questo saggista cerca comunque di svelare “l’occultamento del fattore umano”, e di arginare così quel fatalismo, già micidiale nel Novecento, che oggi induce le nostre società apatiche ad accettare le stragi dei migranti o la disinformazione putiniana sull’Ucraina.

 

Il sintomo più grave dell’apatia è l’indisponibilità a immedesimarsi: gli imperturbabili “spettatori del naufragio di Bucha o di Mariupol”, scrive Musci, affogano “tutte le carni umane nell’indistinta categoria della ferocia di tutte le guerre”; oppure, recitando a costo zero la parte degli spiriti forti, ripetono che la Storia ha il diritto di “calpestare gli individui” (e qui cade una perfetta citazione di von Clausewitz: “L’aggressore è amante della pace, egli vorrebbe conquistare le nostre case senza sparare un sol colpo”). Contro la politica ridotta a mera tecnica o a demagogia, che è causa e frutto insieme di un tale cinismo, l’autore utilizza lo sguardo di chi ha saputo intrecciare tipi di conoscenza anche lontani, come Elias Canetti o Ernesto De Martino. Nelle società del XX secolo, De Martino registrò un’inedita e allarmante incapacità di umanizzare il mondo, ovvero di tradurre in simboli condivisi le angosce apocalittiche, che da culturali divenivano perciò psicopatologiche.

 

La “catastrofe” è ancora questa; e sembra inevitabile, a chi è immerso in un apparato economico-burocratico che s’impone come un processo assurdo quanto naturale. Ma Musci, con sforzo “controintuitivo” – l’aggettivo-leitmotiv del libro – oppone a questo apparato l’immaginazione responsabile di un mondo diverso.

 

Non si tratta di riproporre le utopie rigide e spietate dell’ingegneria umana novecentesca, ma d’inventare un buon riuso delle rovine: anziché abbattere e costruire ex novo con violenza razionalistica, occorre ricombinare flessibilmente i pezzi di storia e natura in mezzo a cui viviamo. Qui Musci fa esempi architettonici e cita altri due studiosi versatili, Mumford e Bateson. Qualunque sia la struttura che vogliamo costruire – politica, urbanistica, culturale – non dobbiamo esaurire le risorse, ci ammonisce, né tentare di renderla totalizzante. Bisogna invece preservare sempre un residuo di energia potenziale; cioè lasciare aperta la porta da cui, appena la struttura si sclerotizza, potrebbe entrare il vento dell’alternativa.

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