Chi avrebbe oggi il coraggio di scrivere “Della bruttezza”?

Rinaldo Censi

“Oggi, in tempi di body positivity, a molti verrebbero i capelli diritti” leggendo l’opera di Antonio Rocco

Chi gettasse oggi un primo sguardo su Antonio Rocco, noterebbe in lui una certa sfacciataggine. “La sfacciataggine, a comprenderla in una definizione, è dispregio della buona reputazione in vista di un guadagno indecoroso”, indicava già Teofrasto. Negli anni dei suoi studi filosofici e teologici (prima a Perugia, poi a Padova), Rocco sembra abbia quasi tenuto a mente questa asserzione. Nondimeno, il giudizio si dimostrerebbe affrettato, dettato dalla nostra pigrizia. Anche se, va detto, lui stesso si sarebbe divertito a farlo circolare. Arrogante lo riteneva Galileo, da lui avversato nelle pagine delle “Esercitazioni filosofiche” (1633). Tanto che lo scienziato arrivò a commentare: “Questo è cervello stupido e nulla intelligente di quello che scrivo, ma bene arrogante e temerario”.

 

L’aristotelismo eterodosso di Rocco, appreso a Padova grazie all’insegnamento di Cesare Cremonini, mal si addiceva alle teorie galileiane. Aveva scarsa dimestichezza con la matematica e l’astronomia, ma la sfrontatezza non gli mancava. Eppure, un’altra era la qualità in cui eccelleva: l’acutezza. Vale la pena ricordare che egli fu figlio del Seicento più barocco, proprio come Baltasar Gracián, che su quel termine aveva scritto nel 1648 uno dei suoi volumi più noti, “L’Acutezza e l’Arte dell’Ingegno”.

 

È improbabile che lo conoscesse, eppure la lezione del gesuita spagnolo sembra confarsi al presunto frate (o sacerdote) italiano. Non è infatti certo che, dopo gli studi teologali e filosofici, Antonio Rocco abbia intrapreso la carriera ecclesiastica. Sembra che, una volta ordinato sacerdote, egli abbia preferito la carriera libertina: lettore di filosofia presso il convento dell’isola di San Giorgio Maggiore, e di retorica nella città di Venezia. Lo segnala Laura Coci, che dello scrittore è massima autorità. In laguna, Rocco incrocia le sorti di Ferrante Pallavicino, ad esempio. Entrambi fanno parte dell’Accademia degli Incogniti. Entrambi usano i meccanismi della retorica per rovesciare, irridendola, la morale costituita. In una lettera anonima, pubblicata in “Glorie de gli Incogniti” un corvo scrive: “Il Dottor Rocco continua per tant’anni ad insegnare l’istessa dottrina, o vero errori, havendo inestato nell’anima di nobili e d’altri, e quel che più importa d’ecclesiastici, questi pestiferi inserti”.

 

È insomma un diabolico corruttore d’anime. Non solo. L’Accademia è la palestra adatta per operare una continua infrazione delle norme attraverso un paradossale “discorso” accademico. Sono l’intelligenza della parola, il ragionamento che persuade, le armi acuminate degli Incogniti. Da questo punto di vista, i loro membri paiono “stand up comedian”. Ma quante note di biasimo incasserebbero oggi. I fanatici digitali includerebbero Rocco tra i cancellabili (pensate se leggessero “L’Alcibiade fanciullo a scola”). Francesco Loredano editerà nei “Discorsi Academici de’ Signori Incogniti” (1635) due dei suoi “discorsi”: “Della bruttezza” e “Amore è puro interesse”. Il primo resta una magnifica argomentazione che rovescia i canoni della “bellezza” disarticolando le categorie estetiche, giocando con ingegno su ragionamenti contrari, puntellando il discorso con dotte citazioni aristoteliche.

 

Oggi, in tempi di body positivity, dogmatismo ottuso, scarso umorismo, a molti verrebbero i capelli diritti. O forse no. Si lascerebbero convincere? In retorica, la persuasio si verifica grazie all’esagerazione, lo straniamento: finirebbero per credere anche loro a ciò che prima consideravano irricevibile?

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