La civetta cieca

Roberto Paglialonga

La recensione del libro di Sadeq Hedayat, Carbonio Editore, 135 pp., 14,50 euro

Il confine tra disperazione e felicità è sottilissimo. Il suo punto di caduta, dove va a spegnersi l’abisso dell’uomo, ha per nome solitudine. E’ lì che sparisce ogni urgenza di “quella che chiamano vita”. Lo sperimenta il protagonista de La civetta cieca, capolavoro di Sadeq Hedayat – intellettuale iraniano di famiglia aristocratica per censo e cultura, nomade tra Europa e Asia (il libro, inviso in patria al governo di Reza Shah Pahlavi, verrà pubblicato a Bombay nel 1936), che morirà suicida a Parigi nel 1951 – ora proposto per la prima volta in italiano direttamente dal persiano, grazie alla prestigiosa firma di Anna Vanzan.

 

Un miniaturista di portapenne, fragile e illuso, messo in scacco da un’umanità che egli disprezza, si perde nell’oblio dei ricordi e in un flusso morboso di amore e odio: all’inizio per un’immaginaria “femme fatale”, poi, a ritroso negli incubi e nelle allucinazioni dovute anche all’oppio, per la concretissima moglie. E compie un viaggio ipnotico nel vortice della sofferenza più atroce del corpo e dell’anima. Avanti e indietro tra due mondi, quello dell’ombra e quello della luce, in balìa dell’Acheronte, senza il coraggio di compiere fino alla fine il tragitto. Chiudendosi nella sua “miniatura”: la stanza di casa da cui solo un pertugio lo collega con il mondo di fuori. Non potendo vedere soddisfatta la propria bramosia sprofonda in labirintiche tentazioni di suicidio e di violenza, spossato dall’ossessiva attrazione per la morte – propria e dell’amata – perché l’unica che “ci libera dagli inganni della vita”. E lei? La “Sgualdrina”, com’è chiamata, preda e cacciatrice allo stesso tempo, incapace di volergli bene, si chiude a sua volta in una catena di tradimenti. Ma tutto è reale e tutto è finzione. Anche la girandola di personaggi – che vivono forse solo nelle visioni della “civetta”, l’autore-protagonista, appunto, simboleggiato non a caso dall’uccello che rappresenta la sfortuna nella tradizione persiana – colti nella loro disumanità avara e a-relazionale.

 

Un’opera sconvolgente, scritta con prosa febbrile, venata di anticlericalismo ed erotismo, perciò indigesta anche al regime teocratico degli ayatollah odierni, per quanto sia considerata fondante la letteratura persiana contemporanea, al pari di un Poe o di un Kafka per l’occidente, autori cui in effetti Hedayat viene di frequente accostato. Romanzo impastato di lirismo, potente quanto – a tratti – abominevole. Perché mette in scena tutto il decadimento cui può giungere un’anima abbandonata, o che volutamente, testardamente, si accanisce contro il proprio “io” per colpire un mondo invece insensibile all’altrui miseria.

 

Com’è facile, allora, pensare che proprio la solitudine sia l’equilibrio in grado di tenere insieme il puzzle. Il cantuccio del proprio niente ove recidere ogni legame, ancorché per il desiderio di “conoscere meglio me stesso”. E’ la risposta impacciata alla domanda che sottotraccia da sempre assale il cuore: esiste la felicità? Ma vano è il tentativo di afferrarla, viaggiando solo all’altezza dei propri bisogni, e non, anche, delle proprie ferite.

 


 

Sadeq Hedayat
La civetta cieca
Carbonio Editore, 135 pp., 14,50 euro

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