recensioni foglianti

Il problema dell'uomo

Claudia Gualdana

Martin Buber, Marietti 1820, 124 pp., 12,50 euro

Per quanto significativo, il titolo non tragga in inganno: l’uomo in Martin Buber non è un problema. Semmai è necessariamente un io che si rapporta al tu, come rammenta il titolo di un altro suo saggio. Perché l’uomo o è tra i suoi simili o non è: nella separazione i tratti peculiari dell’umanità vanno perduti. E’ questa la problematica centrale del pensiero di Buber, pensatore difficilmente classificabile, perché nella sua opera si intrecciano teologia, filosofia, pedagogia. Alcuni lo definiscono sociologo; altri lo dicono un padre dell’ebraismo moderno. Entrambe le definizioni sono corrette, ma parziali. Lo dimostra questo libro, pubblicato la prima volta a Tel Aviv nel 1943. Si tratta del primo corso di filosofia della società tenuto da Buber all’Università di Gerusalemme nel 1938. Un’epoca in cui serviva una buona dose di ottimismo per qualificare la condizione umana originaria nella socialità, senza alcuna mediazione dell’utile e dell’interesse. Soprattutto da parte di Buber, di religione ebraica, e proprio per questo espulso dall’Università di Francoforte e riparato in Palestina. A scorrere i capitoli, in cui dialoga con Aristotele, Kant, Heidegger e altri, si comprende la portata filosofica della sua indagine. Perché per Buber, se il sociologo “vuole conoscere ciò che è da cambiare” non può farlo se non partendo dalle radici del pensiero. Egli ne individua due: la filosofia greca e il messianismo ebraico. Definendosi “filosofo sociale”, Buber ammette implicitamente di essere erede di entrambe, come europeo, come ebreo e come uomo. Platone e Isaia sono le luci da cui attinge perché entrambi “esigono la connessione tra tra il dover essere e l’essere”. E se il sommo greco misura l’uomo nel paragone con uno stato ideale, il profeta si richiama alle idee di pace e di giustizia. Il pensiero di Buber, in cui l’essere umano è destinato a interagire con l’Assoluto, la natura e gli altri uomini, è di straordinaria attualità anche per le inevitabili implicazioni politiche e sociali. Per Buber, liberalismo e collettivismo sono le conseguenze della crisi profonda creata dalla società moderna, rea di aver reciso le relazioni tradizionali: famiglia patriarcale, corporazioni, comunità di fedeli. Buber ha svelato le debolezze dei due sistemi nelle conseguenze negative dell’isolamento individualista e nell’annullarsi dell’uomo in una massa anonima. Non c’è futuro, se non nel ritrovamento di una nuova “comunità vera”, fatta di relazioni sociali basate sulla fiducia reciproca. Merce rara di questi tempi. Ma la sfida, per Buber, dev’essere raccolta: pena la perdita di se stessi. Perché una vita non è tale, se non contempla relazioni autentiche. Una sfida utopistica, forse. Di cui tuttavia c’è un gran bisogno, soprattutto in tempi di rarefazione telematica dei rapporti sociali. Egli credeva nello “spirito” dell’umanità, perché “rassegnato o non rassegnato, lo spirito lavora”.

 

IL PROBLEMA DELL'UOMO
Martin Buber
Marietti 1820, 124 pp., 12,50 euro

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