Johann Heinrich Füssli, “Incubo” (olio su tela, 1781)

Il mitico guardaroba intellettuale di Mario Praz

Matteo Marchesini

Attraverso i dettagli bizzarri ricostruisce un’intera civiltà, trasforma le sue pagine in una Wunderkammer antiquaria di bolle, teschi, clessidre, emblemi della vanità, cere mostruose

Alcuni dei maggiori intellettuali italiani del 900 sono stati figli eretici di Croce: ma eretici quasi loro malgrado, e finché hanno potuto un po’ nicodemiti. Esibendo il certificato di neoidealismo, dichiaravano di muoversi nell’edificio del suo sistema, e di limitarsi ad arredare meglio certe stanze; però il loro lavoro li spingeva inesorabilmente ad aprire porte segrete che davano su un mondo illeggibile con le lenti euclidee del maestro. Nati tra le inquietudini moderne, questi intellettuali, spesso scrittori d’eccezione, sfuggivano all’olimpico cerchio crociano per le tangenti di un empirismo spregiudicato e di un’aruspicina della vita inconscia, spettrale: si pensi a Longhi, De Martino, Debenedetti, Contini.

 

Più che eretico si può invece chiamare figlio degenere Mario Praz, il grande anglista che nel 1930 pubblicò “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, uno studio la cui fortuna internazionale è paragonabile forse solo a quella del “Mimesis” di Auerbach. Davanti a questo catalogo di voluttuosi supplizi e luciferi avvenenti, di femmine perseguitate o sadiche e di putrefazioni, Croce ringraziò il dotto autore per esser sceso a inventariare le cantine del cattivo costume, evitando così a tutti di doverci rimettere piede; ma aggiunse subito che Praz sbagliava a eliminare la distinzione tra il romanticismo degli slanci ideali e il suo rovescio morboso, decadente, togliendo la spina dorsale all’800 e riducendolo a un oggetto di teratologia estetica.

 

Eppure al tema “morbid” non corrisponde un atteggiamento nevrotico: come scrive Raffaele Manica nel suo ritratto uscito per Italosvevo, Praz ragiona di corruzioni e vizi “in stile e in spirito, a freddo, da mitografo antico”. E Manica rileva un’altra singolarità. Pur avendo esordito mentre trionfava la prosa d’arte, negli elzeviri Praz si allontana dal lirismo calligrafico alla Cecchi: la sua scrittura esibisce un’eleganza trascurata, quasi a riflettere la precarietà di un universo dove ogni onda storica viene subito sommersa da un’onda nuova.

 

Secondo Arbasino, nella suggestività antiteorica e museale di Praz si fronteggiano “Capriccio” e “Catasto”, un giardino all’inglese e uno all’italiana. E a proposito del continuo ricombinarsi dei saggi nelle sue raccolte (“Fiori freschi”, “La casa della vita”, “Voce dietro la scena”…), Manica parla di una “danza del sapere”. In Praz, osserva, “l’erudizione nasce sempre da qualche altra parte rispetto all’oggetto di cui si tratta, ma sembra fatta apposta per convergere proprio in quell’oggetto (…) inizialmente incongruo, fino a delucidarlo”: lo sguardo “anamorfico”, la luce radente che getta sulle cose ha l’apparenza della casualità, ma presto si scopre fatale. Così può leggersi anche il suo destino di scrittore, se è vero che indovinò il genere a lui più congeniale quando Papini gli diede da tradurre per caso i “Saggi di Elia” del Lamb.

 

Come quello di Elia, ha scritto Praz, “il mio guardaroba intellettuale (…) è un documento di poche idee ma di molte manie”. Queste manie, per le quali Edmund Wilson coniò la categoria del “prazzesco”, cercano appigli nell’arte, nei viaggi, ma soprattutto nel collezionismo di oggetti trascurati, pratica che sembra derivare da una doppia delusione, per la vita e per la letteratura: la carne è triste, e Praz ha letto tutti i libri. La sua passione è manieristica. Ama le linee serpentine, contorte, che nelle epoche di passaggio scaturiscono dallo scontro di opposte correnti, e si concentra in particolare sulle forme in cui il neoclassicismo sfuma nel romanticismo: le forme di Piranesi, di Fuseli, dell’Impero.

  

Se confrontato con questo clima, quello macabro e floreale di fine 800 fa a Praz l’effetto di una parodia greve: così Wilde lo è di Brummell, e i parnassiani dei neoclassici. “Un gioiello si porta addosso, non ci si può abitare dentro”, dice dell’architettura liberty; e con D’Annunzio censura la retorica gestuale di Rodin. Eppure nel ’67, alla National Gallery di Washington, più che dai capolavori pittorici è colpito dalla mano che lo scultore modellò in punto di morte, “ragnata come un artiglio” e tesa a stringere un “tenero torso di donna, acefala e senza braccia”. E’ attraverso i dettagli bizzarri che Praz ricostruisce un’intera civiltà, trasformando le sue pagine in una Wunderkammer antiquaria di bolle, teschi, clessidre, emblemi della vanità, cere mostruose. Se Zavattini è il nostro Brecht, Praz è il Benjamin di un paese scettico, sensuale, analogico, refrattario agli schemi metafisici. Delle prose leopardiane apprezzava ovviamente il “Ruysch”. Ma la sua opera è un lunghissimo, pausato Dialogo della Moda e della Morte.

Di più su questi argomenti: