Psiche

Claudia Gualdana

Erwin Rodhe, Laterza, 634 pp., 24 euro

Nell’Odissea, quando Ulisse incontra Achille nell’Ade tenta di consolarlo della sua morte. Ma non c’è verso di distogliere l’eroe dalla nostalgia per la pienezza della vita. Achille rimpiange le gioie del giorno: nell’oltretomba omerico l’anima è l’ombra di un vissuto e niente più. Tra il mondo dei vivi e quello dei morti si spalanca un abisso, l’eterna incomunicabilità che passa tra l’essere e il non essere. Questo hanno pensato i filologi moderni per lungo tempo, fedeli all’immagine di una religiosità greca olimpica, razionale, confortata dalla lucidità dei filosofi. Solo nella Germania della seconda metà dell’Ottocento, dopo le scorribande dionisiache di Nietzsche, fu scalfita l’immagine di quel mondo apollineo, sereno, e il dubbio aprì una breccia nell’idealizzazione. Prima si pensava che la Grecia classica fosse il luogo cui in cui non trovavano posto “incubi ferali e luttuosi”, come scrive Sergio Givone nella prefazione al classico di Erwin Rodhe, Psiche, uscito in due volumi nel 1893 in Germania e diventato presto un classico.

   

Un’opera basilare per una comprensione “moderna” delle concezioni dell’anima greca, con la complessità e le stratificazioni che questo comporta. Rodhe insegnava Filologia classica ad Heidelberg ed era un amico di Friedrich Nietzsche, del quale è in qualche senso un seguace. Pur non avendo elaborato un sistema filosofico, ha preso spunto dalle intuizioni del grande filosofo per scalfire l’immagine fredda degli dèi greci per mettersi alla ricerca del dubbio e della mistica. Il risultato è eccellente, argomentato con rigore e tuttora attuale: per Rodhe Psiche, che in greco significa appunto anima, è stata cercata prima, e non dopo Omero. Ai tempi del vate cieco corrisponde infatti la fase di secolarizzazione della religione arcaica. In cui Dioniso, il dio dell’ebrezza detto “signore delle anime”, capace di risorgere dalla sua morte, è il retaggio di culti arcaici e selvaggi. Gli stessi proibiti dai romani molto più avanti, per ragioni di ordine pubblico, ché gli oranti indossavano pelli di animali, si ubriacavano per sperimentare stati alterati dell’essere e mangiavano crude le carni degli animali sacrificati.

  

Usanze barbare, si dirà, lontane dalla spiritualità raffinata e laica di Atene. In Dioniso convergono infatti la latebra, il buio, la notte, le pulsioni e gli incubi, tuttavia l’idea di immortalità dell’anima per Rodhe discende proprio da questa divinità scomoda. Eppure c’è un luogo ufficiale deputato ad accogliere l’eredità del dio del ritorno dall’Ade: Eleusi, i cui misteri non contemplavano tanto il ritorno della vita naturale a primavera, quanto quella dell’umanità dopo il trapasso. Rodhe definisce “tragico” il volto mistico della religione greca e lo rivaluta, senza nulla togliere ai culti olimpici. Come a dire che Dioniso, con quella sua natura metà umana e metà divina, è il ponte che sovrasta l’abisso tra vivi e morti, umani e divini, luce e tenebre. Insomma, c’è spazio per l’aporia e per l’assurdo anche sull’Acropoli; troppo facile credere che Omero fosse ingenuo al punto di illudersi di avere tutte le certezze in tasca.

PSICHE
Erwin Rodhe
Laterza, 634 pp., 24 euro

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