“Per la nostra civiltà, preferisco parlare di speranza nel senso cristiano del temine”
Siamo ciò che siamo perché portiamo rispetto ai morti, non li gettiamo in una discarica. E questo è ciò che ci definisce, dice Rémi Brague al Figaro
Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere, a cura di Giulio Meotti
Le Figaro – Una delle lezioni di questa crisi, è che il regno dell’economia si è bloccato per lasciare posto alla cura dei più vulnerabili. Non è forse il segno che, nonostante tutto, siamo ancora cattolici?
Rémi Brague – Che siamo caratterizzati da una cultura cristiana è assolutamente evidente, anche per coloro che se ne dispiacciono. Gli induisti, quando credono ancora alla reincarnazione, pensano che ogni male sia meritato, che sia una punizione per gli errori commessi in una vita precedente, e che sia un modo per espiare le proprie colpe. Maria Teresa, che cercava di alleviare le sofferenze dei moribondi, era estremamente malvista dagli induisti delle caste alte. Per questi ultimi, Madre Teresa privava gli sventurati della possibilità di una migliore incarnazione nella vita successiva. Ritenere che le vittime debbano essere soccorse, chiunque esse siano, e a prescindere, in particolare, da quale sia la loro religione, la loro utilità sociale, la loro età, semplicemente perché queste persone sono “il mio prossimo”, è un credo di origine cristiana. Questo credo viene messo in luce fin dalla parabola del “buon samaritano”.
Per lottare contro la diffusione del virus, sono stati sospesi tutti i riti per i credenti. Questa sospensione della comunione e la virtualizzazione dei nostri riti (messe televisive) non ci fanno forse capire qual è il vero valore delle chiese?
Viviamo in un mondo dove il virtuale ha sostituto il reale. Ciò vale in tutti gli ambiti. C’era un’eccezione, che era appunto rappresentata dai riti religiosi. Non perché riguarderebbero la dimensione eterea della nostra esperienza, lo “spirito”, come viene detto erroneamente in maniera ahimè troppo diffusa. Ma proprio perché, al contrario, riguardano il corpo. La messa è un pasto, e non si può mangiare a distanza. Le chiese sono dei refettori, delle mense popolari o dei Restos du (sacré-)coeur (la rete di associazioni francesi nate nel 1985 da un’iniziativa dell'attore comico Coluche per la distribuzione di pasti a persone bisognose o in difficoltà, ndr) dove tutti vengono accolti senza controlli all’ingresso. Certo, il cibo che viene offerto a messa non è un cibo qualsiasi. E certo, l’obiettivo finale dei sacramenti non è quello di ricordarci che abbiamo un corpo. Ma forse potrebbero anche aiutarci a ricordarcelo. Perché associano indissolubilmente l’Altissimo a ciò che c’è di più umile, di più elementare nella nostra condizione: nutrirci, riprodurci (anche il matrimonio è un sacramento), morire. Questa alleanza paradossale conferisce alla nostra povera e fragile specie una dignità fuori dal comune.
I funerali sono stati ridotti al minimo indispensabile. Cosa pensa di questa sospensione inedita delle “leggi non scritte” che fondano la civiltà?
Ciò su cui si fonda la civiltà, ossia ciò che costituisce l’umanità stessa degli esseri umani, sta in un piccolo numero di regole. Tuttavia, ciò che W. R. Gibbons chiama la “nostra bella civiltà occidentale” sembra essersi dedicata al nobile compito di distruggerle. Anzitutto, le discredita chiamandole “tabù”. Che bella parola! Quanto è utile! Da quando il capitano Cook l’ha portata con sé da Tahiti, permette di mettere nello stesso sacco i più alti imperativi morali e le più futili routine, l’omicidio e il fatto di indossare la cravatta di un college di cui non si è stati fellow, la bestialità e l’abbottonarsi l’ultimo bottone del gilet… Fra queste regole di base, ce n’è una che concerne i riti funebri. Il celebre passaggio dell’Antigone dove Sofocle fa apparire la nozione di “legge non scritta” riguarda appunto gli onori da tributare a un corpo, anche se è quello di un ribelle. In breve, non si può trattare il cadavere di un caro scomparso come qualsiasi altra cosa. Lo si seppellisce, lo si imbalsama prima di metterlo in un sarcofago, lo si brucia in un falò, lo si abbandona ai rapaci in cima a una torre, o la sua famiglia lo divora in un pasto solenne, poco importa in che modo. Ma non lo si tratta come un oggetto fra gli altri, da buttare in una discarica. Fra le celebri ultime parole, sono note quelle dell’ecologista sul suo letto di morte: “Me ne frego, sono biodegradabile”. I paleontologi sottolineano l’estrema importanza della presenza nelle tombe preistoriche, a partire dal 300.000 anni prima della nostra era, dei pollini fossili. I nostri lontani antenati deponevano i fiori sui cadaveri. Non sapremo mai quali erano le loro inte nzioni. Ma comunque, avevano per i cadaveri una sorta di rispetto. Lo stiamo perdendo.
Quale messaggio può trasmettere la resurrezione in questi tempi tragici? Quali speranze (nel testo originale, è “espérance”, nel senso cristiano del termine, e non “espoir”, ndr) esprimete per la nostra civiltà alla fine di queste crisi?
Per la nostra civiltà, non ho molta speranza. Ma lei ha ragione a parlare di speranza nel senso cristiano del termine. Solo essa può salvarci. E’ una delle tre virtù dette “teologali”, assieme alla fede e alla carità. Queste virtù hanno la peculiarità di non essere eccessive. Fatto che le distingue dalle altre virtù, dove l’eccesso dell’una ostacola l’esercizio delle altre. Per esempio, un’eccessiva prudenza può farci dimenticare il dovere di prestare soccorso al nostro prossimo. In compenso, non si può credere troppo, amare troppo, sperare troppo. Lo scopo ultimo di queste virtù è in realtà infinito: Dio che, con la purezza della carità, ci prepara “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” (Prima lettera ai Corinzi). Concretamente, come si dice, è lecito sperare – conclude Rémi Brague – questa volta da un’attesa tutta umana, in una piccola presa di coscienza dei limiti della nostra condizione, della “nostra portata”, come diceva Pascal.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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