Drieu la Rochelle ritratto da Jacques Emile Blanche (Olycom) 

uffa!

Quel colossale parapiglia tra le due guerre che non risparmiò Drieu la Rochelle

Giampiero Mughini

Uno che se non fosse stato fascista, sarebbe stato comunista. Uomo di tutte le latitudini intellettuali del Novecento, il suo "Exorde" contiene ciò che lui avrebbe detto in tribunale se non si fosse tolto la vita nel '45, in uno di quei processi dove si calpestavano i princìpi dell’imparzialità e serenità del giudizio

Uomo di tutte le latitudini intellettuali del Novecento, testimone imprescindibile nonché scrittore notevole e talvolta notevolissimo nella Francia tra le due guerre, uno che nel giugno del 1940 aveva scelto di “collaborare” con i tedeschi giunti vittoriosi a Parigi ma senza che le sue mani si lordassero mai di sangue o di fango, Pierre Drieu la Rochelle aveva compiuto 52 anni nei primi mesi del 1945, quando la sconfitta nazi nella Seconda guerra mondiale era alle porte. Quando lui ritenne che gli restavano solo due alternative, “morire” o “essere ucciso”. Darsi la morte oppure trovarsi di fronte dei giudici che non avrebbero ascoltato nessuna parola e nessuna spiegazione, e immediatamente dopo i fucili puntati dal plotone di esecuzione. Già nell’agosto 1944, quando lui s’è rifiutato di fuggire da Parigi a rimorchio dei tedeschi in direzione del castello di Sigmaringen, scrive un’ultima lettera al fratello Jean (nato nel 1903, di dieci anni più giovane) al quale dice di custodire la sua biblioteca e di occuparsi della sua opera. I due primi tentativi di suicidio falliscono. Il 15 marzo 1945, alla notizia che è stato emesso un mandato di cattura contro di lui, si toglie la vita con il gas. 

  

Doveva essere il 1984 o il 1985, e io ero un giornalista dell’Europeo diretto da Claudio Rinaldi, quando entrai nella casa parigina di Jean Drieu la Rochelle (sarebbe morto nel 1986) che mi indicò i libri appartenuti al fratello. Saranno stati 200-300, tutti ben conservati, riposti sulle mensole di una libreria con accanto una lampada da terra che era stata di Pierre Drieu la Rochelle. Ne sfogliai un paio, di cui lessi le dediche di scrittori rinomati che vi erano apposte. Al fratello, l’autore di Le Feu Follet aveva lasciato anche le poche pagine manoscritte di una sorta di suo drammaticissimo testamento, che l’architetto Jean Drieu la Rochelle fece pubblicare a sue spese nel 1951 per i tipi della parigina Imprimerie Dumoulin in un’edizione di 500 copie numerate dal titolo Récit secret. La mia copia porta il numero 409, la comprai in una delle numerose librerie parigine allora specializzate nella letteratura degli anni dannati dell’occupazione nazi. Ho appena comprato su Amazon uno dei pochi libri di Pierre Drieu la Rochelle che non avevo, il Journal 1939-1945 edito da Gallimard nel 1992, anche quello proveniente dalle carte del fratello dello scrittore. Che aveva esitato a lungo se  pubblicarlo, da quanto ne erano roventi molte pagine. Per tutta la prima metà del secolo i più in vista tra gli intellettuali francesi non solo si erano schierati passionalmente da una parte o dall’altra, si erano anche lanciati vicendevolmente degli strali furibondi rispetto ai quali le odierne “telerisse” appaiono per quel che sono, poltiglia di basso conio. 

  

Nel Journal 1939-1945 è accluso per intero Récit secret e un testo altrettanto drammatico dal titolo Exorde che Drieu deve avere scritto in quello stesso giro di mesi. Ed è ciò che lui avrebbe detto in un tribunale di quel tempo ove avesse accettato di comparire innanzi a tali tribunali, quei tribunali francesi del 1945-1946 durante le cui udienze i giudici maledicevano apertamente gli imputati. Quei processi a senso unico contro lo scrittore Robert Brasillach, contro l’ex ministro degli Interni di Vichy Pierre Pucheu, contro quello che era stato per quattro volte il primo ministro della Francia, Pierre Laval, un processo e relativa condanna a morte su cui ha scritto pagine straordinarie Fred Kupferman, lo studioso francese che aveva portato la stella gialla sul petto al tempo di Vichy. Nel suo Exorde Drieu ha perfettamente ragione, quella era una giustizia che calpestava i princìpi dell’imparzialità e serenità del giudizio, né più né meno di come avrebbero fatto dei tribunali fascisti o comunisti. 

  

Laddove lui avrebbe voluto spiegare che cosa era stata “la collaboration”, render conto in dettaglio, addurre delle ragioni. Riferite a quel preciso momento in cui i carri armati tedeschi avevano schiantato in pochi giorni l’esercito francese, e ne sembrava messa in discussione l’identità stessa della democrazia repubblicana, una democrazia che faceva acqua da tutte le parti e questo almeno a partire dal 6 febbraio 1934, la data delle sommosse parigine che fanno da spartiacque della moderna storia francese. Drieu che nella Prima guerra mondiale era andato all’assalto delle trincee tedesche non si dichiarava “colpevole”, no, questo no, e a differenza di molti degli imputati minori di “collaborazionismo”. Lui voleva essere giudicato per quel che era sempre rimasto, un uomo in piedi, un europeo che puntava sull’orgoglio e sull’unità dei popoli europei, uno che non fosse stato fascista sarebbe stato comunista. Un parapiglia mentale? In parte sì. Lui uno dei milioni che ci stettero addentro quel colossale parapiglia da cui erano venute le carneficine della Seconda guerra mondiale.

  

Lascia invece sbalorditi un aspetto della memorialistica di quest’uomo che pure seppe pagare con la vita. Il fatto che mai una sola volta lui dimostra di accorgersi di che cosa stessero facendo gli accoliti di quei soldati hitleriani per cui lui aveva parteggiato. Non una volta. Possibile che non si sia accorto nemmeno di sguincio di quello che accadde a Parigi per due intere giornate, il 16 e il 17 luglio 1942, quando la bellezza di 9.000 agenti  francesi si misero in movimento a rastrellare la bellezza di 13.000 ebrei apolidi che abitavano a Parigi e che poi vennero trasferiti nei campi di annientamento, un terzo di loro dei bambini. Nemmeno di sguincio, nemmeno una didascalia sotto una foto, nemmeno una parola messa tra parentesi? Non sapevamo, ripetevano per ogni dove i “collaborazionisti”. Non sapevamo, mi disse Maurice Bardèche, quando lo intervistai nella casa del Quartiere Latino in cui aveva vissuto con suo cognato Robert Brasillach, quello che fucilarono dopo un processo durato due ore.