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uffa!

Giovanni Ansaldo fu fedele al “mondo ordinato” oltre fascismo e antifascismo

Giampiero Mughini

Uno dei più grandi giornalisti del Novecento, omesso dalla memoria diffusa degli anni in cui a battere palla erano ora gli uomini di una squadra, ora dell'altra. E questo perché lui fece parte di entrambe

Da quanto è apparentemente contraddittorio e zigzagante, risulta ai miei occhi affascinante il destino di Giovanni Ansaldo (nato a Genova nel 1895, morto a Napoli nel 1969), un giornalista che nel panorama del Novecento italiano occupa lo stesso rango di Leo Longanesi e Indro Montanelli, ma che molto più di loro due è stato omesso dalla memoria diffusa degli anni in cui a battere la palla erano ora gli uomini del fascismo, ora gli uomini dell’antifascismo. E questo perché Ansaldo appartenne ora all’una ora all’altra squadra quale forse nessun altro primattore di quegli anni. Dopo aver combattuto nelle trincee della Prima guerra, esordì nella rivista di Piero Gobetti, intransigente avversario del fascismo. Da redattore capo del Lavoro di Genova, il solo quotidiano italiano che non smettesse le sue critiche al regime, subì una dura aggressione squadrista nel dicembre 1924. C’era la sua firma tra quanti avevano sottoscritto il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti e che venne pubblicato sul Mondo l’1 maggio 1925. Il 28 novembre 1926 venne acciuffato dalla polizia fascista (assieme a Carlo Rosselli, Riccardo Bauer e Carlo Silvestri) mentre tentava di varcare il confine con la Svizzera a scansare la dittatura mussoliniana. Il 5 marzo 1927 venne condannato a cinque anni di confino, da espiare a Lipari. 

Dopo aver vinto il suo ricorso contro la condanna ed essere tornato a scrivere (sotto pseudonimo) sul Lavoro, il liberal-conservatore amico di Gobetti e grande estimatore di Giovanni Giolitti va persuadendosi che la politica mussoliniana degli anni tra gli ultimi Venti e i primi Trenta sia non solo vincente ma anche convincente. E’ il tempo, fino all’ottobre 1935, in cui corre voce che Mussolini ogni mattina andasse a leggersi le corrispondenze di Ansaldo sul quotidiano genovese. Fino al gran balzo del 1937, quando un Ansaldo che aveva chiesto la tessera del Partito nazionale fascista diventa direttore del Telegrafo, il quotidiano livornese di proprietà della famiglia Ciano. Del Galeazzo Ciano che sta trionfando politicamente, Ansaldo resterà amico e suggeritore fino al 25 luglio 1943. Dopo di che Ansaldo entra a far parte dell’esercito badogliano e fa la sua parte nel combattere contro i nazi. Catturato dai tedeschi in Dalmazia, lo mettono in un campo di concentramento da dove lo libereranno i soldati canadesi. Durante i tre anni della guerra la sua voce era diventata notissima alla radio fascista, ecco perché il 12 settembre 1945 un ferroviere lo riconosce e lo addita alla polizia. Nuovo carcere, che però non dura a lungo. Il 27 giugno 1946 l’amnistia promulgata dal governo di cui Palmiro Togliatti era ministro della Giustizia gli restituisce la libertà. Ansaldo torna in campo per poi diventare dal 1950 al 1965 il direttore del Mattino, il quotidiano napoletano dove lo aveva voluto Alcide De Gasperi. Muore nel 1969, a 74 anni.

Per essere un itinerario intrigante, eccome se lo è. E difatti da tempo mi sono promesso di ripercorrerlo adeguatamente. Ho comprato quattro dei suoi libri autobiografici pubblicati postumi dal Mulino, ho tirato giù da uno scaffale della biblioteca dove lo avevo riposto senza averlo letto il libro che Leo Longanesi aveva pubblicato nel 1947, Il Vero Signore, facendolo passare come scritto da un certo Willy Farnese, un personaggio molto noto nel panorama internazionale, uno che “s’era diviso pochi anni fa da Angelica Morgan, dopo un clamoroso processo”. Ed era invece il nostro Ansaldo a un tempo in cui era meglio occultare la sua vera identità. Dei suoi libri ne ho fatto così una pila, e prenderò a leggerli uno dopo l’altro. Ho cominciato da Anni freddi. Diari 1946-1950 che il Mulino aveva pubblicato nel 2003, e dove in alto a destra della copertina è una foto dove sono in piedi l’uno di fianco all’altro Ansaldo e Longanesi. Longanesi che era alto un metro e 57 non arriva al nodo della cravatta di Ansaldo, che era un pezzo di omone. “Alto e quadrato come un armadio, portava a spasso sé stesso come un monumento”, così lo descrive Montanelli dopo aver detto di lui che è stato “una delle più grandi figure del giornalismo di tutti i tempi, non solo italiano”.

Dovessi indicarvi le primizie di cui sono zeppi questi diari, un intero numero del Foglio non basterebbe. Ansaldo sa tutto di prima mano, ha incontrato e pesato al milligrammo tutti, ha letto tutto. Mi soffermo sulle pagine dedicate alla vittoria elettorale della Dc nell’aprile 1948, vittoria che lui non dava affatto per scontata. Dei suoi amici che prevedevano che il Fronte popolare raccogliesse il 35 per cento dei voti, pensava che ne sottovalutassero la presa sulla società italiana del tempo. Da liberal-conservatore, Ansaldo temeva che fosse in gioco il destino di una società, quel “mondo ordinato” in cui avevano vissuto suo padre e Giovanni Giolitti. E’ perciò felicissimo che vadano a ruba libri e librini editi in quel torno di mesi da un Longanesi strenuo nel suo “lavoro di propaganda” anti-Fronte, il quale gli scrive da Milano che per loro è questione di “salvare la pelle”. Un altro suo amico gli dice quali e quante armi i carabinieri abbiano trovato nei nascondigli partigiani nel 1947, 247 mitragliatrici, 67 mortai, 22 cannoni fra gli altri. Poi è andata com’è andata, il Fronte prende appena il 30 per cento, e Ansaldo non la finisce di ringraziare quelli che hanno votato Dc perché glielo avevano raccomandato i preti e le suore. Ansaldo sbagliava a temere quello che accadde dappertutto in Europa ove i partiti comunisti avessero vinto le elezioni? “La sconfitta ci ha salvato da noi stessi”, mi dirà quarant’anni dopo Riccardo Lombardi, quello che da prefetto di Milano nell’aprile 1945 aveva ordinato di por fine allo scempio di quei cadaveri appesi alle travature di un distributore di benzina in piazzale Loreto.