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Tra Einaudi e Lenin: le ragioni di una “rivoluzione liberale”

Matteo Marchesini

Imbrigliata e in cerca di élite, l’Italia di Gobetti ha qualcosa dell’Italia di oggi

Molte correnti e suggestioni culturali si combinano nel pensiero di Piero Gobetti (1901-1926). C’è in Gobetti un ideologo progressista; c’è un critico d’arte conservatore, che risente dell’antiavanguardismo anni 20; e c’è anche un giornalista che sintetizza la storia d’Italia al modo di ideologi disinvolti come Oriani e Missiroli. C’è, ancora, il lettore di Sorel, che vede nella lotta di classe una reazione vitalistica all’inerte parlamentarismo liberale; e c’è il lettore di Mosca e Pareto, che individua nelle élite più dinamiche la guida necessaria di ogni società. Nel sostanziare queste concezioni, lo soccorrono poi sia il liberismo di Einaudi che la fascinazione per Lenin, oltre a una smania di tradurre il pensiero in azione che viene dritta dalla filosofia di Gentile. Ma nell’opera gobettiana più matura prevale l’influenza di due diversi modelli liberali: quello di Croce e quello di Salvemini. Di Croce, Gobetti riprende l’aspirazione a un pensiero organico e idealistico, ma rifiuta la visione irenica e antiagonistica della vita civile. Viceversa, dal progressista Salvemini ricava molte idee su socialismo, antiprotezionismo e riforme democratiche, ma si oppone al suo atteggiamento positivista appunto in nome di “idealità” non riducibili all’analisi dei singoli problemi.

 

Attraverso la meditazione di questi autori, e attraverso le prime prove politico-editoriali, Gobetti arriva presto a una sintesi spericolata e originalissima: quella che si ritrova sulla sua rivista “La Rivoluzione Liberale”, e soprattutto nei pezzi che vanno a formare il libro omonimo del ’24. Con un’intransigenza che lo apparenta a Gramsci, ma con in più uno stile concitato che riflette la sua debordante energia giovanile, l’autore ricapitola qui in forma vertiginosamente scorciata i problemi secolari attorno a cui si muove la storia italiana; e subito trasforma questa ricapitolazione tendenziosa in uno strumento di pedagogia politica per l’attualità. Non c’è grande tema che sfugga alla sua attenzione, dal Risorgimento alla scuola, dagli affari esteri alla Chiesa. Particolarmente riusciti risultano i brani sugli schieramenti politici del dopoguerra (nazionalisti, popolari, fascisti, socialisti, comunisti) e i ritratti di alcuni singoli leader (Sturzo, Salvemini, Mussolini e lo stesso Gramsci, la cui fisionomia è descritta come un equivalente fisico del pensiero).

 

Cruciali, poi, sono i passaggi nei quali Gobetti parla delle avanguardie proletarie – cioè degli operai organizzati che aveva davanti a Torino – come delle nuove e più autentiche élite. Seppure in una prospettiva diversa da quella di Gramsci e dei marxisti, anche lui considera questi operai i veri eredi della migliore tradizione borghese. Solo che per Gobetti non devono realizzare il comunismo, ma la vera rivoluzione liberale che è fallita durante il Risorgimento. Sulle classi proletarie, il giovane ideologo proietta la speranza di una fulminea trasformazione sociale: confida che le loro lotte contribuiscano in maniera decisiva a colmare i ritardi storici della nazione, e a produrre in extremis quella modernizzazione che in Italia è ancora allo stato embrionale. Perciò il liberalismo, ideologia di solito associata alla moderazione, diventa per lui un fatto “rivoluzionario”. Designa, cioè, un’accelerazione di quelle dinamiche sociali avanzate che Gobetti oppone alla speculare estremizzazione dell’inerzia italiana, determinata a suo avviso dal regime fascista: un regime in cui il ventenne direttore della “Rivoluzione”, a differenza di Croce, non vede affatto un corpo estraneo o un mero incidente di percorso, bensì “l’autobiografia della nazione”.

 

Il fascismo rappresenta per Gobetti sia l’eterna “infanzia”, sia la decrepitezza di un’Italia invecchiata senza diventare adulta. E’ un’Italia che “crede alla collaborazione delle classi e rinuncia per pigrizia alla lotta politica”, lasciandosi soffocare dai ceti più parassitari, né autenticamente proletari né responsabilmente borghesi. La sua arretratezza deriva dalla perenne tendenza a bloccare, imbrigliare o comunque esorcizzare quel libero scontro tra le classi attraverso il quale soltanto possono emergere élite forti e capaci di riformare la società. Secondo Gobetti, nonostante il suo piglio rivoluzionario il fascismo non ha fatto altro che portare alla perfezione una tale tendenza. Il suo statalismo, che concepisce la società come un organismo unico diviso in tante corporazioni “medievali”, offre la massima protezione possibile ai privilegi di gruppi che non vogliono affrontare il rischio d’impresa, e li copre sotto la patina retorica di un interesse generale tutto di facciata.

 

E’ in questo senso che il regime mussoliniano costituisce la più attendibile “autobiografia della nazione”, e potremmo dire la ricapitolazione della sua storia clinica. Ai suoi esordi, nell’immediato dopoguerra, la violenza fascista sembrava prefigurare un reale e perfino fecondo scontro di idee e di interessi. Ma dopo appena due o tre anni, Mussolini ha raccolto intorno a sé l’immobile blocco sociale delle classi medie già sedotte da Giolitti. Anche su questo piano, il capo del fascismo ha semplicemente perfezionato il consenso, portandolo con ogni mezzo verso una sinistra “unanimità”. Tutto ciò, secondo Gobetti, attesta “l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie”. Meglio che i tiranni facciano il loro dovere fino in fondo – meglio la persecuzione aperta e sanguinosa, dice provocatoriamente con una frase che fa rabbrividire chi conosce il suo destino. Forse solo così, dice, ci si potrà risvegliare dal torpore con una nuova energia e una intelligenza più limpida.

 

Questo atteggiamento fa capire bene le radici etiche e perfino psicologiche dell’autore di Rivoluzione liberale. La sua concezione della lotta di classe non è mai slegata da concetti come “forza morale” e “spirito di sacrificio”. Convivono in lui due tipi opposti di intellettuale. Da un lato c’è l’illuminista attento ai dettagli, erede di quella tradizione che passa per il ’700 dei Verri, per l’800 di Cattaneo e per il ’900 di Salvemini, e che è rimasta sempre ai margini della scena italiana; ma dall’altro lato, questa tradizione s’innesta sul carattere di uno spiritualista appartenente all’assai più influente famiglia dei letterati che nutrono generose illusioni politiche. E’ la famiglia del corregionale Alfieri, su cui Gobetti scrisse la tesi di laurea: cioè del poeta per eccellenza antitirannico, ma animato da una visione politica tutta astratta, aristocratica e classicista. E non è certo un caso che allo studio dell’astigiano si siano dedicati anche altri giovani cresciuti sotto la tirannia del fascismo, come ad esempio Fubini, Debenedetti e Sapegno, coetanei di Gobetti e a lui vicini, sebbene più letterati e meno politici. “La vita è tragica”, ripete alfierianamente questo spavaldo martire dell’antifascismo, che molto prima di Croce e Salvemini ha capito dove conduce la strada spianata da Mussolini. E con un esempio significativamente classico ammonisce che “è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile”.

 

Il lottatore Gobetti è un intellettuale insieme pratico e idealista, o se si vuole un idealista della pratica. Ed è da questa identità doppia, fondata su una sconcertante dote intuitiva, che nasce l’originalità dei suoi saggi: dove liberismo e leninismo, etica protestante della responsabilità individuale ed entusiasmo per le classi povere in ascesa si mescolano in un disegno precario ma eccezionalmente suggestivo. Oggi questa miscela non può essere per noi un modello; ma l’Italia che Gobetti ha descritto somiglia ancora alla nostra.
 

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