La liberazione di Parigi nel 1944 (Wikipedia) 

uffa!

Rebatet, scrittore fascista, e il suo editore antifascista Paulhan

Giampiero Mughini

Finalmente un'edizione italiana di “Les deux étendards”, Il libro che faceva dire a Mitterrand che l’umanità si divide tra chi l'ha letto e chi no. Il capo editoriale di Gallimard si battè affinché i “vinti” del 1940-'45 non fossero trattati da criminali per avere scritto articoli e libri

Ce ne voleva di ostinazione perché una casa editrice minore come le Edizioni Settecolori (fondata più di quarant’anni fa da Pino Grillo e Stenio Solinas) riuscisse a pubblicare in un’elegante edizione italiana i due tomoni di “Les deux étendards”, il romanzo di Lucien Rebatet pubblicato in prima edizione francese da Gallimard nel 1951. Il libro che faceva dire a François Mitterrand che l’umanità si divide in due categorie, quelli che hanno letto “Les deux étendards” e quelli che non lo hanno letto. È uno dei più importanti romanzi francesi del Novecento, un cimelio ineguagliabile nel testimoniare la drammatica pasta morale e intellettuale di cui era fatta una Parigi che fungeva in quel momento da capitale del mondo. Lo avevo letto a furia di 80 pagine al giorno nel 1986, durante un agosto in cui mi erano compagni di vacanza due che hanno fatto la storia del moderno giornalismo italiano, Claudio Rinaldi e Nazareno Pagani. La mia copia portava il marchio di 15esima edizione francese. Da allora quel romanzo continua a essere venduto e letto in Francia, seppure il suo autore sia stato un personaggio talmente rovente e da tanti maledetto. 

Nato nel 1903, morto d’improvviso il 24 agosto 1972, Rebatet è stato fra anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta uno degli intellettuali francesi più sfrontatamente “fascisti”. Il suo antisemitismo non era meramente polemico, qualcosa che sorgeva in punta alla sua penna, era una sua convinzione congenita e profonda. E non è che di antisemiti nella cultura francese del tempo ce ne fossero pochi, e questo a partire dall’“Affaire Dreyfus” di inizio secolo. Solo che un superbo scrittore quale Marcel Jouhandeau, uno che aveva pubblicato nell’anteguerra un esecrabile librino antisemita (“Le péril juif”), quando i nazi si insediarono a Parigi chiese al suo editore di toglierlo dalla circolazione. Laddove Rebatet fece esattamente il contrario. Scelse il momento in cui la democrazia francese della Troisième République era in ginocchio sotto il tallone nazi dopo una sconfitta militare consumatasi  in un paio di settimane, per scrivere uno dei più violenti pamphlets mai pubblicati nella Francia nel Novecento, “Les Décombres”. Edito nel 1942 da Denoël, un editore che pagherà con la vita l’avere pubblicato questo e altri testi antisemiti (venne ucciso per strada a revolverate da un attentatore rimasto sconosciuto), è stato il più gran successo editoriale durante gli anni dell’occupazione tedesca, non meno di 100 mila copie vendute, forse molte di più. Rebatet racconta la volta che andò a fare un firma copie in una libreria parigina sita di fronte alla Sorbonne, e che la fila degli acquirenti del libro debordava per strada. Non mi fraintenderete se vi dico che è un grande libro, un libro irrinunciabile a voler intendere il secolo di cui siamo figli, 600 pagine assieme selvagge e musicali da quanto l’autore – espertissimo di arte, cinema, letteratura, musica –  conduce magistralmente la sua polemica antidemocratica e antisemita nello stile veemente cui era stato educato da Charles Maurras e Léon Daudet, i grandi editorialisti dell’Action Française al tempo in cui nel Quartiere Latino la stampa apertamente di destra vendeva otto volte le copie vendute dalla stampa antifascista. Un libro assieme terrificante e indimenticabile.

Quando le sorti militari della Seconda Guerra Mondiale si capovolsero e gli angloamericani stavano per entrare a Parigi, in un primo momento Rebatet se ne andò via sui camion e sui treni tedeschi assieme ad altre figure di punta della “collaborazione”, fra cui Louis-Ferdinand Céline. Era rimasto invece a Parigi il suo amico e direttore del settimanale Je suis partout, Robert Brasillach, il quale venne arrestato, processato in un’udienza durata due ore e fucilato il 6 febbraio 1945. Rebatet scriverà più tardi che Brasillach gli “aveva salvato la vita”, nel senso che aveva pagato lui per tutti quelli del Je suis partout. Rebatet si era consegnato agli alleati l’8 maggio 1945 ed era stato a sua volta condannato a morte il 18 novembre. Solo che nel frattempo la memoria della guerra e della guerra civile si era attutita e la campagna (condotta da molti intellettuali di sinistra) in difesa della vita di Rebatet ebbe successo, tanto che la pena di morte venne trasformata in una condanna a vita. In realtà il 16 luglio 1952 venne liberato.

In carcere aveva nuovamente messo mano a quello che reputava il libro della sua vita, le migliaia di pagine del romanzo da cui siamo partiti. E qui viene il bello e compare il vero e memorabile protagonista di questo mio articolo, Jean Paulhan, il capo editoriale della Gallimard e pontefice assoluto della scena editoriale parigina. Lui che era stato in prima fila nella Resistenza parigina e che aveva rischiato di essere agguantato dai tedeschi (lo salvò il suo amico Pierre Drieu La Rochelle, l’altro grande scrittore “collaborazionista” morto suicida), riceve il manoscritto di Rebatet, lo accetta e lo pubblica con il marchio Gallimard nel 1951. È come se la casa editrice Einaudi avesse pubblicato in quell’anno il romanzo di un qualche repubblichino accanitissimo, ciò che nell’Italia del tempo era fuori da ogni realtà. 

Il fatto è che Paulhan avrebbe pubblicato il 10 gennaio 1952 un libro, “Lettre aux Directeurs de la Résistance”, a proposito del quale a mia volta divido l’umanità in due, quelli che lo hanno letto e quelli che non lo hanno letto. È il libro di uno che era entrato nella Resistenza francese già nel giugno 1940, ne era fiero, ma che adesso si “vergognava” del fatto che i “vinti” del 1940-1945 venissero trattati da criminali nei tribunali per avere scritto degli articoli e pubblicato dei libri. La copia con dedica della prima edizione della “Lettre aux Directeurs de la Résistance” è il più sacro degli oltre ventimila libri della mia biblioteca.