Foto dal Canale YouTube di Collège de France 

Terrazzo

Jean-Louis Cohen è stato un professore poliglotta ed errante  

Manuel Orazi

La scomparsa di un protagonista della storia dell’architettura, un erede del cosmopolitismo illuminista il cui motto era "my home is where my heart is”

La morte di Jean-Louis Cohen è stato un fulmine a ciel sereno. Una banale puntura di vespa ha messo fine a alla vita di uno dei massimi professori di storia dell’architettura e della città. Nato a Parigi nel 1949, si trovava nella sua casa di campagna nell’Ardèche, vicino alla Provenza, dove era solito trascorrere le vacanze estive sin dall’infanzia perché la sua famiglia vi si era rifugiata durante la guerra. Docente alla New York University, era anche stato il primo architetto ammesso al Collège de France oltre che collaboratore dei più prestigiosi musei americani ed europei. Aveva appena inaugurato una mostra su Parigi a Shanghai e infatti negli ultimi tempi si interessava soprattutto ai rapporti intertestuali fra le città, quello che lui chiamava transurbanity. In altre parole studiava il processo per cui molte città fanno proprie, almeno in certi periodi, le caratteristiche di altre e perciò era molto interessato a metropoli come Buenos Aires, avamposto europeo in Sudamerica, o Casablanca dove la modernità non era tanto il frutto del colonialismo quanto un vettore di emancipazione per le minoranze araba ed ebraica. Il nonno, Marcel Cohen, fu professore di lingue semitico-cuscitiche, un altro era architetto, la mamma, Marie-Élisa Nordmann, ingegnere chimico antifascista come Primo Levi e anche lei sopravvissuta ad Auschwitz.

Pur avendo tutta la famiglia radicata in Francia, Cohen si è sempre definito un ebreo errante stanziato a Parigi e dunque un erede del cosmopolitismo illuminista di Fougeret de Monbron. Il motto nel suo profilo di WhatsApp era “my home is where my heart is”. Era poliglotta grazie anche al fatto che il padre Francis, ex partigiano direttore della “Nouvelle Critique” del Partito comunista francese – equivalente della nostra “Rinascita” – lo mandò fin da ragazzo in Unione sovietica a imparare le lingue slave nei campi estivi. Per questo poco prima di laurearsi fu contattato a Venezia dal gruppo di storici guidato da Manfredo Tafuri che stava studiando contemporaneamente l’Urss staliniana e gli Usa del New Deal per verificare se poi c’erano tutte queste abissali differenze – spoiler: non c’erano. Per questo amava i rari architetti che avevano potuto lavorare in entrambi i paesi come Erich Mendelsohn o Le Corbusier. La critica dell’ideologia nata ai margini del Pci di quegli anni non lo abbandonerà più così come l’amicizia con Marco De Michelis, Alessandro De Magistris e altri. “L’italiano da allora è la lingua dove si sente più a suo agio” dice da Los Angeles l’architetto Olivier Touraine che era stato suo ospite in campagna: “Era organizzatissimo anche in vacanza, grande gourmand, aveva già pronto il menu della settimana tra uno zoom con il Mit di Boston e una discussione in russo con il cognato traduttore”. Impossibile riassumere i suoi libri e le mostre curate, il primo però è dedicato all’italofilia e uscirà il prossimo anno da Quodlibet. Mentre per il Maxxi di Roma curava la mostra “Architettura in uniforme” (2015) e “Gli architetti di Zevi” (con Pippo Ciorra, 2018) ne approfittava sempre per incontrare e aiutare generosamente decine di colleghi e studenti, magari di fronte a una cacio e pepe.

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