Un visitatore guarda "The Lovers II", 2015, di Maria Berrio durante la giornata di apertura pubblica del Paris+ al Temporary Grand Palais (AP Photo/Francois Mori) 

terrazzo

Parigi ritrova la grandeur (a spese di Londra)

Giacomo Giossi

Paris + fa sognare e dimenticare la vecchia Fiac. E poi arriva lei, Patti Smith 

Parigi godendosi, seppur perplessa, la sua prima ottobrata romana da climate change, si prepara a una nuova stagione da possibile protagonista nell’arte contemporanea. In città tutto è in movimento, nei salotti dei curatori come nei cine club, nei bistrot di Montparnasse come nei centri culturali non si parla d’altro che della possibile rinascita di Parigi quale capitale dell’arte, grazie anche all’impasse creativa e soprattutto economica che sta limitando non poco Londra. La prima scossa viene dalla nomina a direttore di Fondation Cartier del dirompente curatore belga Chris Dercon, a oggi presidente dell’insieme dei musei che fanno capo al Grand Palais e fautore della nascita di Paris+ par Art Basel al posto della tristissima e mai competitiva Fiac. L’obiettivo, più dichiarato che non, è divenire il nuovo centro globale del mercato dell’arte contemporanea.

  

Da non dimenticare anche le voci che vedono sempre più vicino Bernard Arnault (Fondation Louis Vuitton) all’inclusione nel suo impero delle gallerie d’arte di Larry Gagosian. In attesa dell’ennesima rinascita della grandeur francese qui in chiave mercantile artistica, risulta imperdibile l’esposizione Evidence di Patti Smith all’Espace prospectif del Centre Pompidou. Nonostante il pletorico afflusso di visitatori che invadono, anche con simpatica casualità, il famoso museo parigino, l’esposizione curata dalla cantante (da sempre tra le più francesi delle artiste americane) ha il merito di offrire un luogo sospeso di puro ascolto di materiali, appunti, archivi. Evidence è una sorta di autobiografia artistica di Patti Smith, frutto della collaborazione con il Soundwalk Collective fondato da Stephan Crasneanscki a New York nel 2000. Nello spazio della mostra si ritrovano gli stilemi e gli amuleti di una poetica da sempre legata alla figura di Arthur Rimbaud, il quale assume nel tempo secondo lo sguardo di Patti Smith corpi, suoni e identità sempre diverse, ma coerenti. Un Rimbaud dylaniano che accompagna il visitatore con il suo Portrait of the artist as a young man. Scritti e fotografie si alternano ai suoni e alle musiche che nelle cuffie accompagnano ogni visitatore: letture, impressioni, divagazioni. Sostenuta dai miti di Jean Genet, René Daumal e Antonin Artaud, l’artista ritorna sulle tracce di Perfect Vision, un triplo album sempre figlio della collaborazione con Stephan Crasneanscki. Quello che appare è dunque il ritratto di un Novecento minimo e delicato, che offre ai visitatori (anche ai più distratti o ignari) un ritratto di un tempo in cui la cultura viaggiava sulla punta delle dita dei poeti (e non dei direttori o dei presidenti) divenendo disegno, canto o semplice appunto. Quello di Patti Smith è un controcanto che elide il senso di moda e di tendenza, offrendo al suo posto il percorso obbligato dell’associazione casuale, del gioco perpetuo che genera però un tempo denso, come quello di una disperata giovinezza. E solo una volta tolte le cuffie si ha la sensazione di essere in un museo con la gente che va e che viene.
 

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