Paola Antonelli fotografata da Marton Perlaki

Gli oggetti e la rivolta

Michele Masneri

La vita dei musei ai tempi del Covid e dei riots, tra Milano e New York. Femminismo e design. Colloquio con Paola Antonelli, curatrice del Moma

Paola Antonelli è nel suo appartamento newyorchese, dove anche in tempi complicati continua a occuparsi di oggetti per il glorioso Moma. E’ infatti Senior Curator del Dipartimento di Architettura e Design e di quello di Ricerca e Sviluppo del Museum of Modern Art, titolo che la consacra come primario “cervello in fuga”, nella città prima chiusa dal Covid e ora sfrenata dalle manifestazioni. Si voleva parlar di design ma è ovvio che l’America in fiamme pone altre tematiche. “Credo ci sia anche una correlazione tra le due cose”, dice su Skype, mentre il marito che fa l’immobiliarista sta negoziando una qualche trattativa nella stessa stanza. Tutti in smart working. “Come se l’energia compressa durante la fase della sopravvivenza sia scattata, come una molla, dopo l’uccisione di Floyd”. New York, dice, era “come congelata, adesso improvvisamente esplode”, con tutte le manifestazioni. Lei ci va? “Certo”. Ha fatto il pane durante il lockdown? “No”. Ora sta facendo su Instagram “Design Emergency”, dei talk sul design durante la pandemia, insieme ad Alice Rawsthorn.

 

La vita del curatore ai tempi del lockdown non è facile. “Abbiamo chiuso tutto in tre ore”, dice, “è un bel guaio, perché i musei americani sono quasi tutti privati, e ogni giorno che stiamo chiusi perdiamo soldi. E i musei grossi come il Moma hanno risorse da parte, ma quelli piccoli non hanno valvole di sicurezza”. “Così i musei fanno come i baristi”, dice Antonelli. Che fanno i baristi? “I baristi americani, siccome campano con le mance, si sono messi online, con un sistema per cui i loro clienti possano dargli un sostegno. E i musei, per riuscire a superare le crisi, si inventano delle cose online, per esserci, per tenere fedele il pubblico”. E a parte le mance come fate in quella terra iperliberista? “Ci siamo tagliati i salari”, dice Antonelli. “E alcuni contratti a tempo determinato non li abbiamo rinnovati. Qui infatti funziona che il governo non ti dà la cassa integrazione, e dunque in situazioni come queste è meglio che le persone le licenzi, così possono avere il sussidio di disoccupazione. E’ assurdo, lo so, ma è così”.

 

L’anno scorso Antonelli è tornata nella natia Milano, a mettere su la mostra in Triennale “Broken Nature”, tutta una cosa su natura e uomo, assai profetica. “Pensi che l’avevo proposta nel 2013”. Com’è stato tornare in Italia dopo venticinque anni a New York? “Sempre bello, è la mia città, dormivo nella mia cameretta da bambina”. Ma non era sarda? Ho letto che è nata a Sassari. Ride. “Sono nata a Sassari, è vero, perché mio padre insegnava lì, è un medico. Abbiamo girato tanto. Ma i miei genitori sono entrambi milanesi. Comunque sì, sono fiera di essere nata a Táttari Mannu”. Ha letto della polemica di Sala coi sardi? “No, davvero”. Gliela racconto. “Ah, se Sala è stato discriminato fa bene ad arrabbiarsi”. Si fa seria. Ma no, stia tranquilla. Si parla solo di vacanze: mentre in America assaltano la Casa Bianca, da noi si assalta al massimo l’ombrellone. “Sono molto orgogliosa di essere italiana e di come l’Italia si è comportata in questa crisi”, dice, “anche se all’inizio in molti l’hanno criticata. Siamo stati trattati come spesso ci trattano”. E come ci trattano? “Siamo considerati al tempo stesso adorabili e inoffensivi. L’immagine è quella, immagine che non siamo riusciti a distruggere neanche quando abbiamo fatto del nostro peggio, come con le colonie”. Ecco, appunto, ma mentre buttano giù le statue di Colombo, ci si chiede: non sarà un po’ esagerato? Pare di no. “Se si tratta di riconoscere i diritti delle popolazioni native, mi spiace, ci va di mezzo anche Cristoforo Colombo. Non si può essere troppo selettivi in un momento come questo. Questo paese, l’America, ha troppe cicatrici che vanno sanate. Colombo ha iniziato un processo che poi ha portato a tutto quello che è successo”.

 

Ma fino a che punto si può andare indietro? Dobbiamo attrezzarci a smontare pure le piramidi? “Paradossalmente, se ci si occuperà dell’Egitto, perché no. Adesso però è in ballo l’America. E’ in corso una riflessione su radici che vanno indietro nel tempo, in questo momento sono gli americani che stanno cercando di capire che cosa è successo nel Ventesimo secolo per quanto riguarda i diritti delle minoranze. E quello che è successo nel Ventesimo secolo ha cambiato la prospettiva sulla vita e sulla storia. E’ doloroso ma va fatto”. Però su, si sa che tanti approfittano per farne una lotta di potere, in molti ambienti, come nell’università, o nello stesso mondo artistico. Risposta diplomatica: “Certo, lo sappiamo, ma quello che dobbiamo fare è stimolare comunque la critica: ognuno metta sanamente in dubbio tutto quello che vede, alla luce della propria coscienza personale. Anche lei come giornalista”. A proposito, ha fatto anche lei la giornalista, per un po’. “Seguivo il costume per il Giornale, a Milano, ma era un lavoretto, mentre ero ancora all’università. Ho fatto due anni di Bocconi e poi finalmente Architettura. Ma lavoravo anche nelle pubbliche relazioni di Armani. Prendevo la mia focaccia per pranzo, andavo da via Passione, dove stavo al Collegio delle fanciulle, fino a via Durini, dove stava Armani, e lavoravo lì il pomeriggio”. Ha curato la prima mostra dedicata al tema della moda al Moma due anni fa. Che ne pensa degli stilisti che hanno deciso di tagliare le loro produzioni in nome della sostenibilità? “Mah, credo che fino a qualche anno fa si facessero fino a dodici collezioni all’anno, creando anche molti problemi ai designer che erano talvolta bolliti. Però sostenibilità di cosa? Forse del loro mercato. Ci sono designer che ci credono davvero, e altri a cui non è mai interessato nulla. Credo ci sia anche molta ipocrisia”.

 

E’ vero che per la sua Triennale scelse solo assistenti donne? “Eh, già. Cosa vuole. In Italia bisogna ristabilire un equilibrio. La gente non mi sopporta più in Italia. L’anno prima al Salone del mobile c’era quella foto, il taglio del nastro in cui erano tutti maschi in abito blu. Non ci ho visto più”. E tornare a lavorare in Italia com’è stato? La burocrazia micidiale? “Ma quella c’è anche qui. Una cosa a cui non riesco ad abituarmi è però il linguaggio della burocrazia, ecco, quell’italiano lì non riesco a comprenderlo, a scriverlo”. E l’Italia è razzista secondo lei? “No, razzista non direi. Provinciale, ecco. Ma è anche il suo bello. C’è lo Slow Food, c’è il paesino”. A proposito: molti suoi colleghi propugnano una fuga verso i borghi, le aree a bassa intensità. “Ah, ma io sto benissimo in città. Se vogliono andare nei borghi ci vadano loro. Io non mi muovo da qua. Anzi, tutti i miei amici che hanno fatto il lockdown in campagna, quelli che sono andati agli Hamptons, telefonavano in preda all’angoscia”. “E poi se uno vuole andare a vivere nel borgo, se aveva questo sentimento, la crisi glie l’avrà accelerato, ma è una scelta che uno deve fare a prescindere dal lockdown. E’ una vecchia storia, quella di andare a vivere in campagna”, sospira. “Il tema vero è che tanti datori di lavoro non si approfittino ora dello smart working, perché si fa presto a dire lavora da casa. Ma almeno qui, la gente ha case piccolissime, come fai?”. (il marito intanto parla concitatamente nel telefono, e sento tutto).

 

Mi dice un oggetto veramente brutto del design italiano? “Mah, non me ne viene in mente nessuno. La bellezza è così relativa”. Poi ci pensa: “I miei oggetti preferiti sono il panettone di Enzo Mari (il dissuasore del traffico inventato quando il designer era consulente del comune di Milano); “o la poltrona Sacco di Zanotta”. Ma avevamo detto brutti. “Uhm. Aspetti. Il fatto è che ci sono degli oggetti brutti che adoro. Quella Fiat così brutta… come si chiamava?” La Duna? “No, quella che sembra uno sharpei”. Ah, la Multipla. “Sì, quella!”. Ma quella era bellissima. “Eh, appunto”.