Studenti del Berkeley College of Environmental Design, 1970

Istruzioni per il riuso. L'enciclopedia a fascicoli per costruire case ecologiche

Michele Masneri

Architetture spontanee, design biocompatibile. Il contributo della controcultura alla casa moderna. Grazie a due libri fondamentali

Prima del metodo Kondo, gli hippy avevano inventato un sistema per tenere tutto in ordine nelle loro case ecocompatibili. Tra una coroncina di fiori e una manifestazione, i californiani più avanzati negli anni Sessanta applicavano le tre R - reduce, reuse, recycle - qui inventate. Un articolo del New York Times Magazine del 1970 indagava, con un reportage alla Lévi Strauss, su queste bizzarre popolazioni, che davvero molto in anticipo avevano stabilito regole per tenere (e produrre) solo ciò che dà gioia. Anche al pianeta: maglioni in casa invece che alzare il riscaldamento; al supermercato con lo zaino, per evitare le antiecologiche buste di plastica; differenziare la spazzatura. Avevano a disposizione, però, oltre a un grosso entusiasmo, un’ottima manualistica.

 

Lo spiegava l’anno scorso una grande mostra al Berkeley Art Museum and Pacific Film Archive, mostrando i legami tra la controcultura, l’architettura e le avanguardie tecnologiche. In America nel 1968 – mentre da noi si sparacchiava - arrivava il fondamentale Whole Earth Catalogue, specie di enciclopedia a fascicoli dello scibile umano. Un Internet cartaceo che spiegava come costruire case ecologiche, montare mobili, utilizzare i materiali e le tecnologie più all’avanguardia; non solo edilizie. Ispirato all’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert, venerato sia da nerd sofisticati che da amatori di riviste, il suo fondatore Steward Brand, passato dall’Lsd alla prima definizione di “personal computer”, fu il trait d’union vivente tra la controcultura e la cybercultura.

 

Il Catalogo teneva insieme Stanford e Berkeley, il centro ricerche Xerox di Silicon Valley che inventa il mouse e il computer, ma soprattutto era anche un grande catalogo Postalmarket, o se si vuole un pre-Amazon, con tutti i prezzi degli oggetti e i macchinari in vendita, più le istruzioni per montarli tipo Ikea. Tecnologia analogica, che Steve Jobs citò nel 2005. “Una delle bibbie della mia generazione, creata nei Sessanta, prima dei computer, una sorta di Google cartaceo, trentacinque anni prima che nascesse Google”, disse nel famoso discorso degli affamati & folli. Ma c’era anche un altro manuale: era “a Pattern language”; il compendio di architettura vernacolare dello stimato architetto Christopher Alexander, che col suo volumone, pubblicato nel 1977 e mai più uscito dai cataloghi, spiegava che le costruzioni migliori non le fanno gli architetti ma le persone.

 

L’architettura, scriveva Alexander, è un linguaggio, ed è composto fondamentalmente da parole che consentono di comunicare – finestre, soffitti, portici – e che tutti conosciamo inconsciamente. Dunque nessun bisogno di ricorrere ad archistar domestiche e straniere, ma molti precetti ovvi – il camino è il centro della casa; i bambini amano i letti a castello; le finestre ampie e luminose son meglio di quelle strette e buie – più istruzioni precise per costruire il tutto; e una filosofia per organizzare non solo la propria casa ma anche lo spazio pubblico.

 

Alexander, oggi stracult in California e non solo, teorizzò che la città è un albero con tante diramazioni; i suoi diagrammi ispirarono Nicholas Negroponte, suo compagno di università, e fu un altro austriaco geniale a entusiasmare i californiani dopo Richard Neutra, e, se si vuole, Arnold Schwarzenegger. Ha disseminato di ville e villette bio la California, che talvolta giungono sul mercato, destando grandissimo interesse accademico e immobiliare.

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