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Il lungo sonno della tv

Salvatore Rizzo

La domenica Carosello e lunedì Sandokan. Come cinquant’anni fa. Il record delle repliche spetta a Montalbano

L’altra sera in tv c’era “Carosello”. E la sera dopo è cominciato “Sandokan”. 
Ah, sì? 
Sì, e domenica c’è la Venier a “Domenica in”. 
Ancora lei? 
Sì sì, imperterrita. 
Scusate, ma ho una specie di capogiro temporale, come un vortice cronologico. 
Vuoi una sedia? 
Forse è meglio, grazie. Che anno è? Che giorno è? Lo so, non sono originale, se lo chiedeva anche Mogol per interposto Battisti ma mi piacerebbe saperlo. Così, per orientarmi.
Siamo nell’anno di grazia 2025 ma è già dicembre e tra un po’ si brinda al nuovo.
No, perché sapete, a un certo punto mi sono sentito come il compagno Antonio. Ve lo ricordate il compagno Antonio, vero? Era quel personaggio che faceva negli anni ‘90 il buon Antonello Fassari ad “Avanzi”, l’operaio comunista con l’eskimo che si svegliava dopo vent’anni di coma e credeva ci fosse ancora il Pci che intanto s’era trasformato in un orto botanico (ulivi, margherite…) e l’unica, salda, inamovibile certezza rimanevano i Pooh con “Piccola Katy”.

Comunque, nessun timore: se “Carosello in love” era un pastrocchietto soap inguardabile che occhieggiava nostalgico alla tv del passato mischiata ai fotoromanzi Lancio, e riciclando perfino quella attuale con il riutilizzo degli esterni presi in prestito dal “Paradiso delle signore”, “Sandokan” versione 4.0 (ma solo per l’uso massiccio del computer e dell’Intelligenza artificiale) era altrettanto foresta pietrificata televisiva nel rimpianto del vecchio sceneggiato (si chiamavano così) di 49 anni fa da 27 milioni di sguardi puntati sul teleschermo, con l’unica differenza di una recitazione che per celare la propria sciatteria usciva fuori dalla righe, di una regia dozzinale e di una sceneggiatura che trattava Salgari come Fabio Volo. “Carosello” è stato battuto da un soap turca mentre la Malesia… alla turca (per via di Can Yaman) ha fatto il 34 per cento di share e irretito quasi 6 milioni di tigrotti. 

                                                         

 

Sicuro o meno, dal passato catodico un altro usato arriva tra un po’ a inquietarci: a gennaio ricomincia “Ok, il prezzo è giusto”. Menomale che Iva, la Zanicchi, ha lanciato l’anatema. In forma scherzosa ma non troppo, com’è d’altronde nello stile del personaggio che non le manda certo a dire, la maledizione fu scagliata quasi solenne, qualche settimana fa, da uno dei trespoli sui cui Francesca Fagnani fa appollaiare le sue “Belve”: “Se vogliono davvero riprendere ‘Ok il prezzo è giusto’ e vogliono farlo senza di me, sappiano, questi signori, che sarà sicuramente un flop”, vaticinò senza bisogno di zingare chiromanti Iva, che quel quiz lo condusse sotto il segno del Biscione berlusconiano per ben 14 gloriose stagioni televisive di fila (su 21 complessive). “Cen-to! Cen-to! Cen-to!” scandiva il pubblico in studio sperando che il concorrente, girando una ruota, s’avvicinasse alla cifra con due zeri e dunque al massimo premio che in quella fine degli anni 80 – quando si doveva indovinare il prezzo di un forno elettrico perché le friggitrici ad aria dovevano ancora inventarle – era un milione di lire. Dal momento che il triste oracolo dell’Aquila di Ligonchio fu lanciato proprio sulla stessa rete (la Rai2 di viale Mazzini, la Cenerentola della tv pubblica senza alcun Principe dello Share a due cifre che se la fili) che dovrebbe riciclare a gennaio il vecchio gioco, più di un dirigente si sarà grattato là dove non batte il sole. Forse perfino Flavio Insinna, di sempre ben educate maniere, che, tornato in casa Rai, reduce dal flop da transfuga su La7 coi suoi giochi in famiglia dopo che proprio mamma Rai gli aveva scippato “L’eredità”, si accollerà quest’altra, di eredità.   

Nella tv del déjà-vu, su quel piccolo schermo che è un continuo Ufficio Recupero di idee già spacciate (bisognerebbe scrivere un 648-bis per chi le rimette in circolazione impunemente, come fossero appena uscite di fabbrica), gli esempi sono all’ordine del giorno, dall’intrattenimento ai talk. Assunto con Tommaso Cerno ed Enzo Miccio a “Domenica in” come badante della “zia Mara”, Teo Mammucari ha dovuto tirar fuori dal sarcofago addirittura “Il Musichiere” (Garinei e Giovannini, 1957, da format americano) con tutta l’attrezzeria dell’epoca, dalle sedie a dondolo alle campane da far sbatacchiare all’accenno della prime note della canzoncina da indovinare (chissà, magari erano ancora gli originali, traslocati dalle catacombe di via Teulada all’ex Dear del Nomentano) ma non sono stati da meno il ripescaggio dei giochini alla Carrà con la cassaforte della quale indovinare il numero della combinazione affinché si aprisse, fino al cruciverbone con cui Boncompagni, a fine anni 80, si teneva care le casalinghe di Voghera, una mano al mestolo e l’altra alla cornetta, per non esagerare con la ragazzeria in gonnella del serraglio di “Non è la Rai” (passatempo tv che era stato a sua volta riesumato dal “Telecruciverba” baudiano del 1964 anche se a quel tempo non c’erano telefonate e aiutini). Come dire, un’ininterrotta discesa nelle cripte della tv

                 

 

Passato, appunto, un presente che ne ripropone continuamente le spoglie (e le rimpiange, quasi confessasse pubblicamente di non poterne ripercorrerne i fasti scimmiottandoli soltanto come una sbiadita macchietta) e un futuro che sembra non profilarsi all’orizzonte nemmeno come ipotesi, come progetto, come idea. Passato. La parolina magica la scandisce, come una Duse nostalgica, la stessa Maria Latella. “Quanto tempo è passato…” riflette quasi struggente la popolare firma del giornalismo riguardandosi al debutto davanti alle telecamere trent’anni dopo nel suo programma “Dalle venti alle venti” su Rai3 (1996). Pochi secondi riciclati a uso promo del suo nuovo appuntamento  televisivo, sempre su Rai3, dove raduna a cena fauna politica, spettacolistica, intellettuale, medica, universitaria, della cosiddetta società civile eccetera. Quest’altro programma avrebbe dovuto essere nuovo ma nuovo non è, è un altro Lazzaro evocato dal sepolcro e traslocato di peso da Sky alla terza rete pubblica, lì si chiamava “A cena da Maria Latella” e qui si intitola “A casa di Maria Latella”. Il flan di carciofi e il branzino in crosta sono rimasti uguali, così come le ciacole tra piatti e posate, e peccato che l’idea originaria l’avesse avuta 42 anni fa, nel 1983, Luciano Rispoli lanciando “A pranzo in tv”, chiacchiere e bocconi.  

 

Nella tv del déjà-vu, su quel piccolo schermo che è un continuo Ufficio Recupero di idee già spacciate

       

Se non fosse per il colore, perché non ci sono più le annunciatrici e il monoscopio a fare nottetempo da totem, se grazie agli schermi ultrapiatti non c’è più spazio per la gondola col carillon, potrebbe sembrare un continuo “Techetechetè”, questa tv generalista ferma da ieri a settant’anni fa, come colpita da un grande sonno, dalla puntura di una mosca tze-tze. 

Magari qualcuno osa. E vince. Canale 5 ha ricicciato “La ruota della fortuna” che dà filo da torcere al competitor “Affari tuoi” su Rai1. E’ avvenuto il miracolo: gli autori (autore: ideatore e sviluppatore attraverso la scrittura di un’idea originale, specie in via d’estinzione e in alcune plaghe televisive già estinta) hanno preso il vecchio format adottato da Mike Bongiorno nel 1989 (per 14 edizioni) dall’originale americano del 1952 e lo hanno candeggiato nel Lambro inserendo dei capitoli tematici dentro il gioco stesso, una sorta di matrioska che però ha appassionato gli stessi ortodossi bongiornani e impensierito non poco i dirigenti Rai, visto che l’ora del confronto – l’access prime time – è fatidica per il traino di prima serata. Ma anche qui: l’idea originaria ha la bellezza di 73 anni. 

Montalbano è il caso più clamoroso di televisione che ricicla sé stessa anche nel genere di finzione, un déjà-vu, che pare abbia perfino partorito gruppi (da studiare sotto il profilo sociologico e psicoanalitico) che on line, la sera della messa in onda dell’ennesima replica (se ne contano 200 in tutto oramai),  giocano ad anticipare in un lampo scene madri o addirittura le stesse battute dei vari capitoli televisivi, insomma dei feticisti del soggetto e della sceneggiatura. Da 26 anni, infatti, dal 1999, con i suoi trentasette episodi spalmati in un quarto di secolo (e, se è fedele quel numero 200, ripassàti in padella almeno 5 volte ciascuno) le avventure del commissario sono buone per tutte le stagioni, dalle canoniche repliche estive agli ormai sempre più numerosi buchi di palinsesto. Quando non sanno più cosa inventarsi per piazzarlo, vanno bene tutte le occasioni: quest’anno gli è andata di lusso con il centenario di Camilleri, per cui “Camilleri incontra Montalbano” ha rotto gli argini delle repliche della calura e dal 9 settembre al 26 novembre ha fatto strage. La prossima occasione di repliche potrebbe essere  “Montalbano incontra Camilleri” oppure, magari per aprire le finestre e far entrare un po’ d’aria, qualche spin-off tipo “Le disavventure di Catarella” o “Le scappatelle di Mimì Augello” con rispetto e buona pace (ormai eterna) del “papà” empedoclino. Intanto, le repliche dal magazzino, a costo zero (eccetto i diritti, di una qualche sostanza, per il produttore Degli Esposti e la sua Palomar e per gli editori Sellerio, essendo quelli degli attori limitati all’immagine e compresi nel contratto originale). 

Montalbano è il caso più clamoroso di televisione che ricicla sé stessa anche nel genere di finzione, un déjà-vu

                

Ma il vero capolavoro della tv che riciccia sé stessa è l’effetto specchio, o riflesso, del suo stesso presente, quella moltiplicazione incalzante, martellante, ossessionante di ciò che ha appena proposto, come se solo il parlare di sé, l’autoreferenzialità, l’egocentrismo potessero dare importanza, spessore, sostanza, autorevolezza, a quel che è scorso sotto i nostri occhi appena poche ore prima. Un techetechetè immediato, istantaneo, fulmineo, un rewind che scappa quasi per sbaglio sul telecomando come la frizione in macchina sotto i piedi. Esempio. Il programma di punta del sabato sera di Rai1 (“Ballando con le stelle”) è terminato tra gli applausi all’una e un quarto della notte. Soltanto tredici ore dopo (passate appena le 14) il programma di punta della domenica pomeriggio di Rai1 (“Domenica in”) schiera – trespolato (in Rai, si sa, le poltrone son tutte occupate) – un drappello di commentatori dello show danzereccio e, tra questi opinionisti, ci sono i protagonisti stessi della balera televisiva della sera prima: un trionfo narcisistico, un tripudio vanaglorioso di “io ho detto” e “io ho fatto”. In mezzo a queste chiacchiere si bruciano cinquanta minuti del programma festivo che di tre ore e 15 minuti di durata complessiva fanno circa un terzo per il quale non si capisce che cosa stia a fare un plotone di autori in quanto basterebbero tranquillamente i gobbisti, tanto l’unico cartello da alzare a braccia tese è quello dell’imminente pubblicità. Poi, i Fred e le Ginger del Foro Italico si trasferiscono ogni pomeriggio dalla Balivo e successivamente da Matano in un giro delle sette parrocchie imbarazzante. 

E’ una piaga biblica, questa della tv che parla continuamente di sé, specchiandosi hic et nunc. Come una maledizione divina, è nata un po’ per cementare gli ascolti delle trasmissioni pubblicitariamente più appetibili (Canale 5 quest’anno avrebbe fatto leggere perfino il telegiornale ai concorrenti del “Grande fratello”, visti i deludenti risultati di un’edizione strombazzata come rivoluzionaria), un po’ per offrire altri argomenti ai salotti postprandiali o apericena del day-time che non siano il  “dacci oggi il nostro crime quotidiano” (a Garlasco, esauriti gli avvocati, i parenti di vario grado e quelli di passaggio che andavano a prendere un caffè al bar, gli inviati intervistavano ormai le siepi di pitosforo). E dunque di “Ballando” (ma anche di “Tale e quale”, di “The voice senior” e di quant’altro debba essere aziendalmente puntellato) si deve parlare financo nel paludato “Porta a porta”, se necessario. E, cambiando condominio, di “Grande fratello”, così come di “Temptation Island” o dell’“Isola dei famosi” debbono occuparsi, obtorto collo, i conduttori di “Mattino Cinque” o “Dentro la notizia”. E visto che non bastano gli appuntamenti del day-time, a Canale 5 si sono perfino inventati una nicchia serale in cui far confluire tutta la tv – passata, presente e futura – che è nata, cresciuta e pasce mediasettizzata (“This is me”, mix di “Amici” e “Verissimo”). Insomma, quella che doveva essere l’Italia rappresentata in uno studio televisivo (come da manifesto programmatico dei day-time) s’è trasformata nella televisione rappresentata in uno studio televisivo. Un talk show continuo sulla tv (che ruba il mestiere a “Tv talk” che è originariamente, da vent’anni, la rubrica di Rai3 che parla, criticamente però, di quel che c’è dentro a quell’oggetto un tempo troneggiante in soggiorno), una forma di cannibalismo che, più che dagli esperti di comunicazione, andrebbe forse studiata dagli antropologi. 

Chissà che ne avrebbe pensato Umberto Eco, il primo studioso italiano a introdurre un pensiero teorico sul mezzo televisivo, di questo immobilismo, di questo voltarsi continuamente indietro, dell’accumulo, della sovrapposizione, della ridondanza di sé che sono diventati la patologia del piccolo schermo. Chissà che ne avrebbe pensato di un programma fatto così: un format straniero acquistato dall’ Italia (metti “Tu si que vales”, dalla Spagna alla scuderia Maria De Filippi) che, forse non contento dei suoi pur lusinghieri successi, se ne carica sul groppone un altro (metti l’americano “Lip Sync Battle”): da un lato l’ennesima variazione della “Corrida” di Corrado, talenti veri e mezze cartucce, dall’altro l’involontaria parodia di “Tale e Quale Show”, vip e semivip che imitano in playback dei supervip. Forse avrebbe pensato, Eco, che la televisione non è, ma sembra soltanto e che perfino una diretta non è la vita pescata sul fatto ma una delle sue molteplici rappresentazioni.