Ansa

Il racconto

C'era una volta la Rai. Giovanni Benincasa racconta il cavallo morente

Salvatore Merlo

"A Viale Mazzini, davanti all’ingresso, c’è il cavallo, il simbolo storico. Bene: oggi l’edificio è vuoto per l’amianto”. L'autore di 40 anni di tv intreccia ricordi come se lavorasse a maglia: "Ho sempre inventato programmi, disegnato le scene, scelto i conduttori. Ma oggi questo lavoro non esiste più. L’autore è diventato un esecutore di format stranieri"

“Facciamo un programma così: entriamo di notte, con una torcia sulla testa, e andiamo per i corridoi al buio, dentro la Rai”. Giovanni Benincasa lo dice ridendo, ma la scena che descrive non è una battuta surreale: è un’immagine precisa. Da mesi il palazzo di Viale Mazzini è evacuato, sigillato per l’amianto che hanno trovato nelle stanze che furono di Ettore Bernabei, Sergio Zavoli e Angelo Guglielmi. Dentro non c’è più nessuno. Fuori è rimasto il cavallo di bronzo, piegato come un animale stanco. E ieri sono morte le gemelle Kessler. “Ecco, sarebbe quello il programma. Si entra con un lumino sulla testa, e si va a cercare se dentro c’è ancora qualcosa: un’idea, una voce, un’ eco del passato”.

 

Benincasa, napoletano, autore televisivo da quarant’anni, è una di quelle figure che nei titoli di coda sono ovunque, ma in video non appaiono mai. Ha inventato “Libero” con Teo Mammucari e Flavia Vento nella teca di vetro, ha fatto “Fantastico” e Sanremo, ha fatto praticamente tutte le trasmissioni di Raffaella Carrà, è stato amico e collaboratore di Gianni Boncompagni, ha scritto per Giovanni Minoli, per Carlo Freccero, per Fiorello, ha lanciato Emanuela Fanelli e Valerio Lundini, ha disegnato scene, aperto palinsesti, costruito formati.

 

A sessant’anni suonati, Giovanni Benincasa dice che vorrebbe diventare guida turistica. Non si capisce se lo dica con un velo di malinconia o se sia una delle sue, con quella voce roca da ex fumatore, napoletano, che però parla con un accento lombardo, quasi da Ugo Tognazzi. “Sono napoletano, poi cresciuto a Milano e infine a Roma. Sembro Tognazzi, vero? Me lo ha detto anche Calcutta, il cantautore”, scherza. Ma poi aggiunge: “Mi piacerebbe fare un programma in cui io faccio la guida turistica per grandi personaggi dello star system internazionale, una versione televisiva di ‘Vacanze romane’”. E in quel momento la malinconia e la flemma buffa si sovrappongono, come sempre.

 

Ci incontriamo “Dal Toscano”, in via Germanico, a Prati. Un ristorante elegante e antico, gestito ancora dal vecchio Amerigo, l’oste di Federico Fellini. Oggi lo gestiscono anche i figli, che indicano a Benincasa il tavolo dove sedeva il regista, proprio dietro al nostro, dove ora arrivano l’entrecôte e i fagioli toscani. Lui sorride, tocca il bordo del tavolo come si sfiora un ricordo e dice: “Ci venivo negli anni Ottanta con Franco Interlenghi e Massimo Bonetti. Interlenghi diceva che qui facevano l’entrecôte migliore di Roma, e che la preparavano solo loro così. Ogni volta la ordinava, sempre uguale. Io la prendo ancora per lui”.

 

 

Intreccia ricordi come se lavorasse a maglia, Benincasa: diritto-rovescio, diritto-rovescio, e via di questo passo. Interlenghi, Bonetti, Massimo Troisi: i nomi si susseguono naturalmente, come se fossero ancora seduti a quel tavolo. “Con Interlenghi e Bonetti eravamo inseparabili. E da lì nacque anche la mia amicizia con Troisi. Con lui non ho mai lavorato, ma ci vedevamo ogni giorno. Viveva in via Adelaide Ristori, in una casa bellissima, pigra come lui. Non usciva mai di casa. Aveva comprato un’auto nuova. Non ci aveva fatto un passo. Una volta mi fece spostare quella macchina di quattro metri per liberare il garage, poi si affacciò alla finestra e mi disse: ‘Mo amm’a fa’ ‘o tagliando!’”. Ma che vuol dire che era pigro? “Che preferiva non spostarsi di casa. Una volta, mi ricordo, c’era anche Ettore Scola. Stavamo parlando di una storia d’amore che Massimo stava vivendo. Stravedeva per questa ragazza. Che viveva a Ostia. Poiché Massimo praticamente manco usciva di casa, ci chiedevamo come facesse a frequentarla. E lui, Massimo, serissimo: ‘Ma l’ho pure accompagnata’. E noi: ‘A Ostia?’. E lui: ‘No, qua, alla porta”.

 

Era un misantropo Troisi? “No macché. Era spiritosissimo”. Anche se non frequentava nessuno. “Gli piacevano gli amici”. Ecco. Gli amici di allora erano un piccolo mondo comico, fragile e feroce. “Io, Bonetti, Gaetano Daniele, Alfredo Cozzolino”. Gli amici veri di Troisi. “Alfredo era un comico involontario, un omone che faceva l’autista del presidente del Banco di Napoli, che si chiamava Ferdinando Ventriglia. Era amico di Massimo perché avevano fatto la scuola insieme, a Napoli. Ogni tanto arrivava a Roma con la macchina di Ventriglia, a trecento all’ora, solo per pranzare con noi. Portava la pasta Setaro, i friarielli, e si rideva per ore”. Poi Benincasa racconta l’episodio che ripete sempre, quello che non ha mai smesso di divertire il gruppo. “Quando il Napoli vinse lo scudetto, quello di Maradona, Alfredo disse alla moglie che il giorno dopo doveva accompagnare Ventriglia a Fiuggi per un convegno. In realtà andò a festeggiare con Troisi e Maradona sulla barca di Ferlaino davanti a Mergellina. Il giorno dopo, in prima pagina sul Mattino, c’era una foto di tutta la squadra sullo yacht, con Alfredo in mezzo. La moglie, geniale, lo chiamò: ‘Alfred’, ma a Fiuggi ci sta o’ mare?’”. Ride. Nel ricordo c’è un calore fisico, quasi una postura del corpo. “Una volta io e Massimo riuscimmo pure a mandarlo ospite da Maurizio Costanzo. Gli dicemmo: ‘Vai, racconta, fai ridere tutti’. Si siede, Costanzo gli fa la prima domanda e lui… muto. Scena muta. Noi a casa, davanti alla tv, a piangere dalle risate”.

 

 

Laureato in giurisprudenza, il padre avvocato che lo voleva notaio, “ma io non avevo nessuna intenzione. Penso di averlo deluso a lungo, per anni. Ma a un certo punto mi accorsi che aveva accettato la situazione”. Quando? “Quando cominciò a chiedermi i biglietti per ‘Carramba che sorpresa’. Praticamente quasi vent’anni dopo che avevo iniziato a lavorare in tv”. Dove? “A ‘Uno Mattina’, con Piero Badaloni. Ho visto la nascita dei quella trasmissione”. E poi? “E poi venni chiamato per un programma con la Carrà”. Era l’inizio di uno dei rapporti più lunghi e affettuosi della sua vita professionale. Un rapporto costruito sulla carne viva del lavoro, delle prove, delle cene, del sugo che borbotta in cucina. “Così è nata la mia amicizia con lei e con Sergio Iapino. Lei era esplosiva, di una energia travolgente, e con un lato domestico che la gente non immaginava. Le piaceva cucinare. La mattina del sabato, quando c’era ‘Carramba che sorpresa’ in serata, si metteva a preparare il sugo per la cena di mezzanotte. Dopo la puntata si andava tutti a casa sua, in via Nemea, dove abitava anche Boncompagni”. Carrà e Boncompagni: una costellazione sentimentale e professionale. “Erano stati insieme. Erano una coppia fortissima, poi un sodalizio artistico. Lui, Renzo Arbore, Marenco, erano il gruppo di ‘Alto Gradimento’: geniali, rivoluzionari, cambiarono la televisione. Io li ho conosciuti tutti”. Boncompagni resta una figura che Benincasa racconta con un misto di fascinazione e tenerezza: brillante, egocentrico, bugiardo per vocazione artistica. “Raccontava storie che non sapevi mai se fossero vere o inventate. Una volta mi disse: ‘Io ho fatto da autista a Salvatore Quasimodo quando vinse il Nobel a Stoccolma nel ‘59’… Io non ho mai capito se fosse vero o se se lo fosse inventato”.

 

Ma chi è il più bravo di tutti in televisione oggi? “Non mi piace fare classifiche, ci sono dei campioni ancora oggi in tv, anche se la tv è sempre meno interessata a inventare cose nuove. Io vado matto per Paolo Bonolis. E’ un travolgente, un talento naturale. Lavora come un atleta, perde chili a ogni puntata, si consuma”. Maria De Filippi? “E’ un brand: parla poco, non suda, non fatica, ma illumina. Paolo invece è una macchina che si accende e non si ferma più”. Hai mai lavorato con Bonolis? “No mai”. E a questo punto Benincasa si ferma, fa una pausa di concentrazione nello sguardo. Un salto che sembra un ribasso narrativo, invece è la chiave per capire tutto il resto. “Devi sapere che Paolo Bonolis è stato il mio compagno di banco. Alle elementari e alle medie, alla Villa Flaminia, a Roma. Dalla terza elementare alla terza media. Poi ci siamo un po’ persi di vista”. Oggi Bonolis è un marchio, una presenza linguistica: da bambino com’era? “Nessuno avrebbe mai detto che sarebbe diventato ‘Bonolis’. Era vivace, sì, ma normale, come tutti noi. Suo padre era il nostro allenatore di calcio. Io ero una pippa, non mi metteva mai in squadra, e mi incazzavo tantissimo”. Ma vi vedete ancora? “No quasi mai. Ma siamo andati a cena poco tempo fa, in un ristorante. Mi ha presentato suo figlio grande, che io non avevo mai conosciuto. E gli ha detto, indicando me: ‘Lui è un bravissimo autore, un grande autore’. E il figlio gli ha chiesto quello che mi chiedi tu adesso: ‘Ma perché non avete mai lavorato assieme?’. E Paolo: ‘Perché siamo amici’”. Sorride, Benincasa, quando ripete quella frase, come se fosse il punto fermo di un rapporto durato decenni. “Mi è piaciuta molto quella frase: ‘Perché siamo amici’”.

 

 

La comicità, per Giovanni Benincasa, non è un genere: è una misura interiore. Un modo di guardare il mondo che cambia insieme all’età e all’esperienza. Quando gli chiedo come sia cambiata negli anni, visto che lui è uno scrittore di battute comiche, non risponde parlando degli altri, ma parlando di sé. “La comicità non cambia, siamo noi che cambiamo. Siamo noi che invecchiamo, diventiamo più esigenti, il palato si abitua a sapori nuovi. Prima ridevamo per certe cose, oggi non ridiamo più. Io, avendo frequentato Troisi, ho un palato difficile: non rido facilmente. Se una cosa mi fa ridere, è fatta bene”. Forse oggi far ridere è molto più difficile, anche perché c’è una suscettibilità enorme? Forse la comicità urticante è impraticabile, bisogna sempre pettinare e mai spettinare? “E’ certamente vero che si sono battute vecchie che ti fanno ancora morire dal ridere, ma se le dicessi oggi ti arresterebbero. Negli anni Duemila, con ‘Libero’, facevamo cose che oggi sarebbero impossibili. Oggi c’è un’altra comicità: quella di Lundini, che fa ridere con altri strumenti, con l’imbarazzo, con la lentezza, con la finta inadeguatezza. Lundini mi fa molto ridere. E’ una comicità quasi silenziosa, basata sulla crepa, non sul colpo di scena. Anche Emanuela Fanelli mi fa ridere molto, ma è diversa: lei è un’attrice comica, non una comica pura. E’ come Mariangela Melato o Monica Vitti, può fare tutto, ma nel registro comico ha una grazia naturale. Il comico puro, invece, è Checco Zalone. Quello che nasce già con la risata dentro”. Checco Zalone è uno che può dire tutto, può anche andare contropelo. Può essere politicamente scorretto. Nessuno gli dà del sessista o del razzista. Fa ridere. Punto. “Io ho sempre pensato che per far ridere serva una ‘patente’. Fino a quando non ce l’hai, non puoi dire niente. Quando ce l’hai, puoi dire tutto. Fiorello, per esempio, ha la patente. Può dire qualunque cosa e ridono. Come Benigni. Se lo dice un altro, lo crocifiggono”.

 

Lungo tutto il racconto, quello che emerge è una distanza crescente fra il mondo in cui Benincasa ha imparato il mestiere e quello che oggi si trova davanti. A un certo punto lo dice apertamente, con una semplicità che spiazza. “Io sono forse per pigrizia un raista, uno che lavora in Rai per la Rai. Ho sempre inventato programmi, disegnato le scene, scelto i conduttori. Ma oggi questo lavoro non esiste più. L’autore è diventato un esecutore di format stranieri. Ti chiamano per adattare, non per inventare. Non esistono più gli autori-editori, quelli che scommettono. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Minoli e con Freccero, che erano editori veri: gente che rischiava, che credeva in te, che sapeva buttarti nell’arena e dire ‘vediamo se funziona’. Oggi non succede più”. E’ qui che torna l’immagine del cavallo di Viale Mazzini, che per lui è diventata una metafora inevitabile. “E guarda, io credo molto nei segni. A Viale Mazzini, davanti all’ingresso della Rai, c’è il cavallo, il simbolo storico. Bene: oggi l’edificio è vuoto per l’amianto”.

 

Un simbolo svuotato? “L’altro giorno dicevo a un collega: ‘Facciamo un programma così: entriamo di notte, con una torcia sulla testa, e andiamo per i corridoi al buio, da soli, dentro la Rai’. Sarebbe un programma bellissimo, malinconico, simbolico”. E’ una delle rare volte in cui la sua voce da ex fumatore si fa ancora più bassa; non triste, ma come se avesse posato da qualche parte una pezzo di sé. Prosegue: “Perché quell’indirizzo, Viale Mazzini, era un luogo dove si cresceva. Si andava da Guglielmi, da Bruno Voglino, da gente che sapeva cos’era un’idea”. Giovanni Minoli dice spesso che il problema della tv oggi è che mancano gli uomini di prodotto, è tutto burocrazie e corporate. “Il palinsesto è un mosaico. E in questo mosaico ci devi mettere le cose sicure, le corazzate, ma devi anche lasciare lo spazio alla sperimentazione, quello che consente di capire se esiste qualcosa di nuovo che può diventare grande. E mi riferisco a volti, personaggi, formati, fantasie. Forse la Rai potrebbe dare uno scossone, liberare uno spazio di sperimentazione in seconda serata, almeno su un canale. Chissà che alla fine, dopo un po’, non ne venga fuori qualcosa di buono”.

 

E allora, quasi come in un romanzo, il racconto prende una piega lieve e sorprendente: la guida turistica. “Dopo quarant’anni, io stesso mi ritrovo ancora a inventare idee e a bussare alle porte come un esordiente. Adesso sto pensando di fare un concorso per diventare guida turistica. Martedì vado a fare l’esame”. Cambi mestiere? “E chi lo sa. Non c’è più molto spazio per quelli come me. Sento che il mestiere del creativo, dell’autore-artista, si sta chiudendo. E’ una forbice che si stringe”. Anche qui la voce non è triste: è lucida. E per questo ancora più netta. “Fare la guida turistica, poi, è difficilissimo. Devi sapere tutto: da Trapani a Chiasso, letteralmente tutto. E’ come dare Diritto privato all’università, io ci ho messo sette volte a superarlo. Però mi piace l’idea, mi piace raccontare, camminare, rimettere in circolo la memoria. Forse, alla fine, anche questo è un modo per tornare alla televisione”. E a questo punto, la chiusura è naturale: bisogna tornare all’inizio, al cavallo, al lumino, al buio dei corridoi svuotati di Viale Mazzini. Nelle sue parole c’era già tutto.

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.