(foto Ansa)

Valerio Lundini, il comico sceso dalla luna

Marianna Rizzini

Ritratto dell'artista romano dopo il trionfo del 1° maggio. Che ha la rara libertà di non chiedersi: “A quale audience mi rivolgo?”

Era meglio il libro. L’ha detto lui, Valerio Lundini, il comico, conduttore, musicista e autore radiotelevisivo. L’ha detto con la copertina dell’omonimo volume di racconti editi da Rizzoli Lizard in cui spiega, nella prefazione, che in realtà sarebbe stato meglio un film, ma visto che un libro ormai c’è, si spera quantomeno possa essere l’unico citato negli articoli in cui all’intervistato viene chiesto “qual è l’ultimo libro che hai letto?”. E uno legge la prefazione e pensa che quella frase racchiuda Lundini più delle definizioni, di sicuro più di quella sul “giovane comico televisivo di successo”. Perché viene anche questo da pensare, di fronte a Lundini, nonostante sia poi davvero un giovane comico televisivo di successo, nel programma “Una pezza di Lundini”, Rai 2, seconda serata da varie stagioni, e non solo: che la televisione non lo contenga o che lui sfugga al mezzo mentre il mezzo lo esalta, figurarsi quando la televisione l’ha inquadrato durante il concerto del primo maggio, evento tradizionale Cgil in cui Lundini, con la sua band VazzaNikki, canta una canzone che già dal titolo (“La guerra è brutta”) fa da eco e lieve controcanto umoristico a tutte le frasi sentite sul palco fino a quel momento. 

Più di qualunque proiettile è potente la nostra retorica”: appena risuona, la strofa, pare in effetti una presa in giro del pacifismo un tanto al chilo, fermo restando il dispiacere di tutti per la guerra, Lundini compreso, e compresa la finta telefonata di Vladimir Putin in diretta, in cui il finto Putin dice di essersi fermato prima di pigiare l’ultimo pulsante proprio grazie alla musica dei VazzaNikki. Chissà. E però intanto è arrivata sullo stesso palco anche la frase, sempre cantata, sul pacifismo da social, con i suoi “meme sagaci” e “le frasi su Facebook”, e insomma è come vedere allo specchio quello che siamo quando ci opponiamo comodamente alle brutture del mondo dal divano di casa. Ma, come dice giustamente uno che Lundini lo conosce, “possibile che tutti quelli con cui si parla dopo il concerto del primo maggio pensino che a essere presi in giro siano stati altri? O piuttosto nessuno è stato davvero preso in giro da Valerio?”. 

Sia come sia, l’occhiale fumé e l’eloquio con r moscia non celano un Lundini altro da sé: è proprio così, lui, dicono gli amici. “Ha sempre fatto questo, da quando era piccolo”. Questo, cioè: scrivere, interpretare, suonare, cantare. Soprattutto, e prima di tutto, disegnare. Perché Valerio Lundini nasce come illustratore, e può capitare, avverte con ironia minacciosa un conoscente, “che Lundini sia intento a scarabocchiare qualcosa mentre tu gli parli e neanche te ne accorgi”. Che cosa disegni si sa e non si sa, perché non tutto viene salvato dalla furia iconoclasta dello stesso Lundini (che disegna sopra ai propri disegni, a volte, o almeno questa è la leggenda metropolitana). 

Passo indietro: ci si è trovati a conoscere dal vivo Lundini quando non era Lundini, qualche anno fa, a una cena di comuni amici, presente l’altro giovane comico Edoardo Ferrario. Lundini, allora poco più che trentenne (ora ha 36 anni), era quello che sorrideva osservando e osservava sorridendo. Timido? No, parlava con tutti e cordialmente. Scontroso? Per niente. Consapevole di sé? Sì, ma in modo quasi impercettibile. E insomma, a guardarlo con la lente dell’oggi, pur avendolo da allora visto soltanto sullo schermo, quel Lundini aveva già tutto quello che ne ha decretato il successo: essere uno che poteva tranquillamente trovarsi anche alla riunione degli amici del liceo (“mi raccomando non scrivete che era al liceo Mamiani”, dice chi lo conosce, ché Lundini potrebbe sembrare in tutto e per tutto uno del Mamiani, quartiere Prati, Roma. Ma non una persona tra quelle interpellate dal cronista per avere informazioni su di lui omette di dire che no, anche se per per lessico e aspetto potrebbe sembrare uno del Mamiani, Lundini in realtà ha fatto lo scientifico, e per la precisione il liceo Newton. 

Dopodiché Lundini è quello che una sera intervista Roberto Saviano su Rai 2, a “Una pezza di Lundini”, nelle vesti di “uomo impreparato chiamato a fare qualcosa che non sa fare, e questo ha a che vedere con la vita, non solo con la televisione”, diceva agli esordi della “Pezza” l’autore Giovanni Benincasa, intervistato su questo giornale da Andrea Minuz. E Saviano quella sera si sedeva e Lundini gli chiedeva se per caso non si fidasse di loro, viste le “persone piacevolissime che lo controllavano” (la scorta) e con cui era giunto al teatro delle Vittorie, e Saviano sembrava indeciso tra il riso e l’arrabbiatura, e poi raccontava di quando, una volta, in aeroporto, una signora si era stupita che lui fosse lì, in giro, nel terminal, come tutti, e non in un bunker – si sa signora che sono quindici anni che non mi muovo da solo, aveva detto lo scrittore, e Lundini a quel punto aveva raccontato che, a pensarci bene, quella mattina un ragazzino in metropolitana gli aveva chiesto dove abitasse, proprio a lui, e insomma, caro Saviano, “non ti auguro un giorno della mia vita”, aveva concluso davanti allo scrittore attonito. Di che cosa avevano parlato? “Di criminalità, minacce e processi per mafia nel Mezzogiorno, tutti argomenti che sarebbero terribili se solo fossero reali. Fortunatamente si tratta solo di libri…”, era stato l’auto-riassunto di Lundini, e quello che pareva surreale diventava terribilmente reale, come quando su Instagram succede di recuperare uno tra gli sketch custoditi e rilanciati dai fan ventenni o sessantenni del comico. 
I quarantenni stanno infatti paradossalmente seguendo con ritardo, pur essendo in teoria più vicini di età al “conduttore di riserva”, quello che Lundini impersona senza tuttavia recitare nella “Pezza”, ché l’essere di riserva non è soltanto l’artificio letterario con cui il programma si era presentato al pubblico due anni fa, nelle aperture di Emanuela Fanelli, attrice formidabile e co-protagonista che dà corpo, voce e volto alla stralunatezza del tutto: l’essere di riserva è una cifra, è la libertà di non porsi la domanda “chi sono? dove vado? a quale audience mi rivolgo?”.

 

Ed ecco che, in uno sketch dei suoi, quello del padre, con un Lundini in completo da travet che accompagna la figlia a scuola istruendola sulle risposte che dovrebbe dare alle domande che tutti i bambini fanno agli altri bambini, dal “perché metti quelle scarpe così brutte?” al “perché tuo padre fa un lavoro un po’ così?”, ci si ritrova squadernati e ribaltati, non nel ridicolo ma nell’umano, anni di futuribili elucubrazioni da genitore medio, il genitore che non si vergogna di com’è ma anche un po’ sì, e si chiede se si possa dire al figlio che un lavoro non regolare è comunque un bel lavoro, anche se il figlio è circondato da ragazzini con famiglie di professionisti da generazioni che non considerano meraviglioso essere un drammaturgo, figurarsi il collaboratore a progetto in una casa di produzione. 

E insomma il Lundini-padre alla fine non sa fino a che punto possa torturare la figlia con lezioni approfondite sulla correttezza politica delle risposte da dare, per non farla apparire maleducata, a compagni di classe i cui genitori neanche si pongono il problema – anzi “la problematica”, come si direbbe in una tipica “situazione alla Lundini” – di che cosa sia l’educazione. Per non dire di quando, nel suddetto “Era meglio il libro”, si descrive in uno dei racconti la scena di un uomo che in macchina aspetta la donna più bella con cui possa capitare di avere un appuntamento (nomen omen: Chanèl Stevanato), ma la messa in scena è quella di una specie di “Sliding doors” in cui l’uomo, nella prima versione, porta la ragazza, un’attrice entusiasta di vedere e farsi vedere, in un bistrot guatemalteco frequentato dal regista Paolo Sorrentino, e vive una notte di ostentazione e amore, e si sente “un cazzo di capobranco”, mentre nella seconda versione l’uomo viene subito degradato assieme al bistrot guatelmateco dalla stessa ragazza, attrice schifiltosa ma amante dei locali trasgressivo-alternativi nonché contrarissima anche soltanto all’ombra della ristorazione “all you can eat”, al punto da far precipitare il rendez-vous in una rovinosa serata in cui non si può fare altro che comportarsi da chaperon, mentre lei si concede a un altro (e sì che, sospira l’uomo riassestandosi i capelli a notte fonda, oggi “stavo messo così carino”). La realtà ne esce sdoppiata, nel senso della foto impietosa di tipi, caratteri, luoghi, atmosfere, compagnie.
Poi si parla di lui, Lundini, con quelli che lo conoscono, e viene fuori la storia casuale e in realtà per nulla casuale della sua ascesa. Nella parole dell’autore Giovanni Benincasa – uno che la tv italiana l’ha fatta negli anni d’oro, e che di Lundini è stato king-maker – il comico-attore-musicista-fumettista si staglia sul palco come “un’opera pittorica” e come una specie di “matrioska al contrario: dalla più piccola alla più grande: lo vedi a teatro e dimentichi quello che fa in tv, lo vedi in tv e dimentichi l’illustratore, anche se poi mi sembra Toulouse-Lautrec: Valerio disegna sempre, disegna mentre fa altro,  riempie fogli e poi li dimentica”. E insomma è andata così: che Benincasa stesse cercando comici per il programma “Battute” e che il cantautore Calcutta gli segnalasse i video di Lundini su Instagram. Da lì è venuto un appuntamento tra Benincasa e Lundini allo storico Bar Pontisso, in cui Lundini è stato arruolato. 

“E pensare che non era un battutista”, dice Benincasa, colui che ha deciso, per la “Pezza”, di mettere nel titolo del programma un cognome sconosciuto, Lundini, appunto, cosa che ha incuriosito il pubblico che si chiedeva “e questo chi è?”, azzerando così lo svantaggio, per il ragazzo, di essere sconosciuto ai più in un mondo in cui non basta certo una puntata sul piccolo schermo per diventare famosi – cosa invece capitata in passato ad altri personaggi lanciati da Benincasa. “Prima di registrare ‘la Pezza’”, racconta l’autore, “avevo chiesto a Lundini se avesse bisogno di qualcuno in particolare vicino a lui”. Detto e fatto. Gli amici di Lundini sono stati presi così, sulla fiducia, per farlo sentire a casa e farlo lavorare tranquillo. E adesso che Lundini è una star della tv e anche di Instagram e TikTok, Benincasa dice che lui “ha costruito l’impalcatura”, ma che il ragazzo “si sta allargando da sé” grazie a “una testa raffinata e a un pensiero preciso”, motivo per cui i due vanno “d’accordo su tutto”. Allargato in effetti si è allargato tanto, Lundini: le sue serate live riempiono sale da duemila posti, quando soltanto tre anni fa recitava in piccoli teatri del centro di Roma. Poi ci sono i fiumi di visualizzazioni, con tanto di fan club sul web (ci sono cultori che raccolgono già “the best of”). 

Il prequel di tutto questo è un’infanzia normale di un ragazzo normale in una famiglia normale, tra genitori, fratello e la passione per il disegno, ereditata forse dalla madre. Poi c’è stata un’adolescenza in cui già si affacciava l’amore per la musica, messa alla prova con la stessa band di amici con cui Lundini suona ora. Infine, a parte la Scuola Romana dei Fumetti, frequentata parallelamente all’università in una classe dove i ragazzi e gli anziani venivano trattati come studenti della stessa età, sono arrivati i tre anni non gloriosi di Giurisprudenza, passati a studiare cose che non entravano in testa, e infatti a un certo punto il nostro è migrato a Lettere, con l’illusione o la certezza di poter studiare meno e procrastinare, dice un amico, “l’ingresso nel mondo adulto”. E’ finita con una laurea triennale più una specialistica, ottenute con due tesi quasi uguali, fatte ovviamente con due docenti diversi. L’ingresso nel mondo del lavoro è stato invece a tre facce: un po’ da illustratore, un po’ da musicista – in posti belli e in postacci – e un po’ autore radiofonico (la carriera sarà rapida, tra Lillo&Greg e Nino Frassica). Agli amici Lundini diceva scherzando: così non devo metterci la faccia, e deve essere stata la Nemesi, sotto forma di Giovanni Benincasa, a mutarlo poi in volto televisivo. 

Quando scrive, dice chi ha lavorato con lui, Lundini è al tempo stesso lento e veloce (scrive tanto, ma con un ritmo tutto suo. Soprattutto: prima scriveva e lasciava le cose da parte e poi le riprendeva, racconta un osservatore informato dei fatti, ora le scrive e basta). Dice l’amico e collega Edoardo Ferrario, comico e imitatore che invece al liceo Mamiani c’è stato davvero, che “l’umorismo dà ordine alla vita di Valerio”. I due si sono conosciuti anni fa, a casa di comuni conoscenti, e hanno insieme creato l’irresistibile serie comica sulla “Pappagallo eventi” per “Il posto giusto”, su Rai 3, in cui mettevano in scena un’agenzia di organizzazione eventi che non sa organizzare nulla ma che riesce lo stesso nell’intento, attraverso pensate surreali. “Nutriamo lo stesso orrore per le cose serie, tra cui quella per le varie retoriche”, dice Ferrario (retorica vuota sulla pace compresa, s’immagina, a giudicare dal primo maggio). Non solo: Lundini e Ferrario da tempo intrattengono una cordiale finta lite on line in cui uno posta e l’altro commenta come fosse un avventore offeso dei social, tipologia tristemente nota. Battibeccano fingendo di non conoscersi: “Solo che spesso qualcuno ci prende sul serio e si indigna davvero”, dice Ferrario. Esempio: uno scrive un elogio di Batman, come volesse lavorare a qualcosa di vagamente simile, e l’altro commenta “queste cose lasciale fare agli americani, qui abbiamo il neorealismo”, come fosse un cinematografaro arrabbiato con i tempi che corrono. Prendono insomma in giro la bruttura quotidiana che sgorga dalla rete (e che è arrivata addirittura in Parlamento). Ma non fonderanno un partito politico, assicura Ferrario anche a nome di Lundini: “Ci manca solo che la gente prenda sul serio i comici”. E’ già successo. “Si, ma…”. 

Balzo all’indietro. Anni Ottanta: Lundini ci nasce, negli anni Ottanta. E quando però qualcuno scrive cose assurde su “Ritorno al futuro” di Robert Zemeckis, film cult del decennio, si arrabbia al punto da metterlo nel libro “Era meglio il libro”, sotto forma di ironia feroce e sottile sui compilatori di enciclopedie del cinema che forse nemmeno hanno visto i film schedati nel volume. Come si fa a scrivere di “Ritorno al futuro” che “il film ci offre un affresco degli anni Ottanta: i loro walkman, gli occhiali da sole, i mitici skateboard e la musica di quel periodo”? E lo scienziato? E le battute meravigliose? Ma che film hai visto, recensore? E non si sa dove finisca il Lundini vero e dove inizi il Lundini da palcoscenico.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.