L'intervista della domenica

Allegra coscienza

Simonetta Sciandivasci

La recitazione, il piano B, la parabola del marziano, "A piedi scarzi", gli scherzi telefonici, una nonna magnifica, le cene noiose, la televisione con Lundini, Verdone, Roma, Facce ride. Conversazione con Emanuela Fanelli

Uso Lucio Battisti e Francesco Guccini per dire come mi sembra che sia Emanuela Fanelli, attrice, quella che in “Una pezza di Lundini”, Rai2, ha dimostrato “la qualità peppinodefilippica di rubare la scena a quelli cui fa da spalla” (parola di Soncini).

È “bella forte e sana, spaventata solo dagli aeroporti” e “forte e debole compagna che qualche volta impara e a volte insegna”, come l’amore di provincia e la donna per amico di LB; ha “occhi spalancati sul mondo come carte assorbenti” e “risate pulite e piene”, come la Culodritto di FG.

Parlo con lei per due ore, dopo una settimana in cui ci siamo scritte ogni sera per svariati quarti d’ora mandando a memoria i film di Verdone. Abbiamo cominciato con “Compagni di scuola”, ci siamo fermate a “Sono pazzo di Iris Blond”, che a lei è piaciuto meno che a me, poi abbiamo fatto una gara di adesivi, che lei ha vinto mandandomi un procione sulla metro A che dice “Tornatene a Subaugusta”.

Dice Francesco Piccolo che a Roma la cosa che proprio non devi fare è rompere il cazzo, anche se poi nessuno è immune, finiscono col farlo tutti, pure i migliori: i romani si scocciano di un regista già al suo secondo film. Questo può fare di te o una persona ignobile o una bella de casa, una buona non dabbene, una Fanelli. La bella de casa esiste solo a Roma, è categoria dello spirito romano.

 

Ho letto che le hanno dato della “rivelazione dell’anno”.

Anche “maestra tutta da ridere”.

 

Ma è sexy!

No, macché. Io ho fatto per dieci anni la maestra di scuola materna, e allora…

 

Capisco. Le manca? È un bel mestiere. Sicuro.

Mi piaceva eccome, ma non era il sogno della mia vita. Lo facevo soprattutto per mantenermi e, intanto, recitavo. Ho fatto anche la commessa e ho lavorato in un call center. Ora faccio l’attrice e basta. Non sono certa che sarà sempre così, ma ho smesso di pensare troppo al futuro o ai piani B: ho capito che è l’unico modo per tenere a bada l’ansia. Mia sorella mi canta spesso “Starman” di David Bowie, perché era la colonna sonora di Meteore. Dice sempre che finirò là.

 

E lei non s’offende?

Le sono grata.

 

A chi fa leggere i suoi pezzi per capire se funzionano?

A mia sorella. Ha un ottimo gusto ed è simpaticissima. Quando andavamo in onda con “Una pezza di Lundini”, con Valerio, il conduttore e autore, e Giovanni Benincasa, il capoprogetto, adottavamo un metodo semplice: ci domandavamo, per ogni frase e per ogni sketch, se ci facesse ridere. I primi a divertirsi dovevamo essere noi. Io, però, non mancavo mai di guardare i cameramen e i microfonisti: se riesci a far ridere delle persone che stanno lavorando da ore dietro una telecamera, dentro uno studio televisivo, e ne hanno viste e sentite di ogni, allora il pezzo è buono.

 

È insicura?

Certo che lo sono. Quest’anno il lavoro è andato bene, qualcuno si è accorto di me, ma io non riesco a non chiedermi se sia successo perché sono brava o perché sono, semplicemente, non mediocre. Ora sembrerò presuntuosa.

 

Mi sembra soltanto esigente.

È che vorrei diventare bravissima. Mi chiedo se questo non sia altro che un momento in cui qualcuno mi vede meglio non perché io sia granché ma perché viviamo un tempo che tende a livellare tutto verso il basso, ad accorciare le distanze, a dire che tutti possono fare tutto e questo inevitabilmente squalifica gli standard. Mi domando, allora: se mai mi riuscirà di diventare bravissima, si vedrà la differenza, si noteranno la crescita, lo scarto, il passaggio?

 

Cosa fa per provare a diventare bravissima?

Lavoro. E cerco di non ripetermi. Sono felice che “Voci di donna” e “A piedi scarzi”, le mie metaserie per “Una pezza di Lundini”, abbiano funzionato e so che se le riproponessi domani, in molti riderebbero. Ma è proprio qui che sta l’insidia e io non voglio vivere di rendita, né penso di potermelo permettere. Se non faccio altro, se non invento, se non rischio e mi adagio su una cosa che ha funzionato, allora non merito niente.

 

Si finisce per forza con lo stufare il pubblico?

Io sono sicura che capiterà. È come con il marziano a Roma di cui scrisse Flaiano. All’inizio tutti impazziscono per lui e vogliono vederlo, poi diventa un’attrazione come le altre, una specie di tappa obbligata, e poi nessuno se lo fila più.

 

Succede solo a Roma?

No, naturalmente. Però Roma ti prepara. Credo che crescere in un posto in cui dopo Cesare è arrivato Augusto, dove hai sotto gli occhi che passa tutto, passano cose enormi, e quindi figurati se non passo io, ti dia la misura della tua piccolezza. Puoi farne una malattia, e impegnarti a diventare un’eccezione, oppure puoi vivere con un sano distacco il fatto che perderai tutto quello che hai, diventerai irrilevante, stuccherai le stesse persone che oggi ti acclamano.

 

I suoi amici cosa dicono del suo successo?

Non parlerei di successo, comunque sono contenti e tifano. Naturalmente, quando ci vediamo, non mancano mai di dirmi: pensa come sta messo il paese, se quest’anno sei sembrata un genio. Quanto mi fa bene. È esattamente l’opposto di quello che capita quando arrivi su un set e tutti ti venerano, ti chiedono se vuoi un caffè, ti dicono che devi riposarti (neanche stessi sminando un campo). Mi chiedo se non sia per questo che a volte gli attori perdono la testa: per via della gentilezza estrema riservata loro quando lavorano. Visualizziamo la cosa: uno ci prova per anni, vive male, non guadagna niente, subisce umiliazioni, rifiuti, insulti, poi improvvisamente arriva a Cinecittà e ci sono dieci persone che si preoccupano di quanto ha dormito, se ha mangiato, se gli stanno bene quelle luci. E allora come fa a non gonfiarsi, almeno un pochino?

 

È un grandioso sdoganamento dei mitomani, complimenti. Lei vorrebbe piacere a tutti?

Purtroppo sì. E so che è impossibile, specie con un lavoro come il mio. Però credo anche che sia giusto provarci, non per ottenere il successo, l’acclamazione, la benevolenza, ma perché lo spettacolo si fa per il pubblico, per renderlo felice, fargli del bene. Voglio piacere perché voglio fare piacere.

 

Vive male le critiche?

Se domani incontrassi per strada un pazzo che circola con un cartello al collo su cui ci sia scritto che quando apre la bocca dice solo bugie, e questa persona mi si avvicinasse e mi dicesse che sono una persona orribile, soffrirei per tre o quattro giorni. Poi, finito di soffrire, mi chiederei su cosa posso lavorare per non essere orribile.

 

Li legge i commenti sui social?

No! Non voglio soffrire. E odio quando qualcuno mi tagga per farmi sapere che gli faccio schifo, così come odio quando qualche amico o collega mi avverte che c’è qualcuno che parla male di me.

 

Lanciamo un appello: nessuno sia latore di odi, antipatie, shitstorm.

Sì, lasciateci in pace, perché poi stiamo con la gastrite. Io tendo a credere sempre agli insulti e mai ai complimenti.

 

Come mai?

Non lo so. Va bene così.

 

Magari ha subìto un trauma da piccola.

No, guardi, io ho avuto un’infanzia meravigliosa e divertente. Sono stata amata tanto e bene. E senza troppe cautele - meno male.

 

Che cosa significa amare bene?

Significa che ti amo perché sei mia figlia, perché sei mia nipote, ti amo e allora bella de nonna ti ho fatto le fettuccine, significa che se ti piace ridere, allora mi impegno per farti ridere. Ai workshop degli attori arriva sempre la parte in cui si confessa di non essere stati amati da piccoli, di portarsi una ferita inguaribile dentro. E io mi sento sempre male e a disagio perché quella ferita proprio non ce l’ho.

 

Quindi lei non è contorta, triste, depressa? Ma che comica è.

No, quella cosa proprio mi manca, che ci posso fare? Sono molto allegra. Non è facile, guardi che me ne cruccio! Una volta sono andata al seminario di una maestra di recitazione americana molto ammirata, una di quelle che credono che se non vinci l’Oscar devi buttarti dal balcone, sa, una di quelle che chiamano i figli “campione”, una cosa che a me fa sempre pensare a Manuel Fantoni. Comunque, anche lì a un certo punto è partito questo pianto generale, questa confessione collettiva di insopprimibili sofferenze dalle quali non ci si è mai ripresi, e io ricordo di aver pensato, guardando tutta la scena dall’alto, altezza satellite: ma guarda tu se dei professionisti adulti per provare una scena devono raccontarsi di quando il padre si è scordato di andare a prenderli a scuola.

 

Suo padre lo ha mai fatto?

Può darsi che sia successo, non me lo ricordo.

 

Avrà pur avuto un grande dolore.

Più di uno, come tutti.

 

Il più grande?

La morte di mia nonna. Lì ho capito perché si dice “mi si è spezzato il cuore”. Ho proprio sentito il rumore dei cocci. Lei era simpaticissima e mi ha fatto il più grande regalo di tutti: una volta mi ha fatto ridere talmente tanto che ho pensato che sarei morta soffocata. Avevo quattro anni e lei fece un agguato a mio nonno e gli tirò giù i pantaloni per farmi ridere. Quasi svenni. È la scena che ricorderei davanti a un plotone d’esecuzione.

 

Che famiglia è la sua?

A casa mia si è sempre parlato molto, i miei genitori mi hanno cresciuta dicendomi che la felicità me la sarei dovuta trovare da sola: so che sembra banale ma solo adesso capisco quanto sia stato importante. Ho sempre sentito una estrema fiducia da parte loro anche quando io non ne avevo nessuna e questo mi ha permesso di non pensare mai, nonostante l’insicurezza, di non poter arrivare a capire qualcosa. Nel mio lavoro è stato fondamentale, anche se non sufficiente, perché nel mio lavoro la componente fondamentale è il talento. E su quello c’è poco da fare, non c’è educazione che ti aiuti a capire come gestirlo o a sopportarne l’assenza.

 

Cos’è il talento?

Fare ciò che vuoi senza faticare troppo.

 

Si nasce talentuosi?

Il mio lavoro lo ho in mente da sempre. La mia famiglia e le persone vicine mi ricordano sempre che quello che vedono adesso in tv sono io. Da piccola facevo le scenette, con mia nonna facevo gli scherzi al telefono. Lei li faceva anche da sola, per divertirsi, apriva l’elenco del telefono e chiamava gente a caso parlando in calabrese. Quando ha capito che in me c’era una vena umoristica, siamo diventate complici. Mi coinvolgeva in tutte le burle alle sue amiche, alle vicine, alle zie. E mi insegnava a dire le parolacce. E io capivo che erano un gioco domestico, da non fare fuori casa. Anche in questo ho respirato fiducia: mi era chiaro che mi veniva dato accesso al linguaggio dei grandi e allora cercavo di usarlo con parsimonia.

 

Che bambina responsabile.

Lo ero, sì. E lo sono rimasta. Alle feste sono sempre stata quella che badava a fare in modo che nessuno si facesse male. Quando facevo sega a scuola, chiamavo mia madre e la avvisavo. Studiavo perché mi piaceva studiare e perché non volevo fare figuracce all’interrogazione. Non mi volevo vergognare.

 

È mai stata bulla?

No, io ero quella che le prendeva, ogni tanto. Però stavo simpatica a tutti, perché andavo bene a scuola ma suggerivo. E poi sapevo fare le imitazioni.

 

E quando le prendeva, perché le prendeva?

Mi picchiava una bambina che pretendeva che giocassi soltanto con lei. Qualche anno fa l’ho incontrata su un traghetto per Corfù. Mi ha detto che non ero cambiata neanche un po’.

 

Me lo dice un suo difetto?

Siamo alla parte del colloquio di lavoro in cui una risponde: mannaggia, sono troppo puntuale?!

 

Mi prenda sul serio.

Va bene. Non sono furba.

 

Poi?

Non sono seduttiva. E mi dispiace, vorrei tanto esserlo. Adesso sembrerà che voglio che qualcuno mi dica: a Fanè, viè qua, ce penso io.

 

Però lei è molto bella.

Ma non bona. A Lundini ha detto che le sue amiche lo trovano sexy.

 

Si  metta nei miei panni, se le dicessi una cosa del genere succederebbe un casino.

Ah già, mi tratterebbe come un corpo, e io poi mi dovrei offendere eccetera.

 

Risparmiamoci la fatica. Quanto è a suo agio con il femminismo?

A volte ho la sensazione di essere in strada, con la spada sguainata, senza capire fino in fondo tutte le ragioni per cui sto lì. Voglio dire che ci sono alcune cose per le quali non mi indigno e che però a quanto pare dovrebbero farmi indignare e allora io le approfondisco, studio, continuano a non farmi indignare e così mi chiedo: dove inizia e dove finisce il patriarcato che ho introiettato?

 

Le è già stato chiesto di scrivere un libro?

Sì e ho detto di no. Non mi sento capace. Voglio fare bene il mio lavoro. E poi, per scrivere un libro dovrei dedicarmi solo a quello e non posso. Chi sono io per mettermi a fare quello cui altri dedicano tempo, studio, sacrifici, sforzi praticamente totali?  

 

Ha una visione piuttosto romantica della cosa.

Io sono una persona romantica. Però, sulla questione del libro, mi faccia dire un’altra cosa. Penso che il dramma di questo momento sia che se uno è famoso o minimamente noto, gli si chieda di fare tutto e, soprattutto, di avere un’idea su tutto. Pensi al povero Montesano, insultato per aver detto delle sciocchezze sui vaccini. Anziché prendercela con lui, non possiamo renderci conto che, semplicemente, non è il parere di un attore quello che dobbiamo ascoltare, a proposito di una pandemia?

 

Esiste l’umorismo femminile?

No. Esiste l’umorismo. E io voglio far ridere uomini e donne, ragionare per categorie non mi piace, credo che mi farebbe scivolare in cliché e il pubblico non lo merita.

 

Quando si annoia?

Spesso mi succede agli appuntamenti.

 

Crede al grande amore?

Sa che più che di una persona da amare, in questo momento, sento la mancanza di me innamorata perché quando lo sono, mi sento più creativa e anche più bella? Detto questo, da sola sto benissimo.

 

Sa cucinare?

Sì, e anche bene, ma lo faccio soltanto se ho ospiti. Altrimenti, più che mangiare, mi sfamo. E adesso mi dirà che non mi voglio bene.

 

Ma guardi, io mangio l’insalata pronta direttamente dalla busta.

Fa bene! È un ottimo modo di volersi bene: si risparmia di lavare i piatti. Non s’è mai capito perché amarsi debba significare tenere in ordine la casa e non, invece, assecondare le proprie voglie, anche le peggiori. Che so, mangiare il gelato per terra, non rifare mai il letto, non lavarsi per giorni. Io se vivessi su un'isola deserta mi abbandonerei a uno splendido degrado. 

 

Se domani la volessi offendere, cosa dovrei dirle?

Sei ‘na miracolata.

 

Lo scrivo con l’apostrofo davanti alla n?

No, per favore, altrimenti poi mi dicono che sono la solita borgatara di Morena.

 

Se non le fosse riuscito di fare l’attrice?

Avrei pensato di non avere abbastanza talento. Sarebbe stato dolorosissimo.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.