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Il Baracchino porta l'animazione italiana sulla vetta. Ma il doppiaggio convince a metà

Personaggi bidimensionali, plastilina e gommapiuma: finalmente un cartone capace di fronteggiare la concorrenza estera. Usare la voce dei comici è un'ottima idea, con qualche dubbio

Riccardo Carlino

L’animazione italiana ha sfornato finalmente un prodotto in grado di competere (e superare) la concorrenza estera. Non che siano mancati altri casi in passato, ma con “Il Baracchino” si compie decisamente un passo in avanti. Come i leggendari Derby Club e Zelig di Milano, anche il Baracchino un tempo era il palco dove ogni comico o aspirante tale avrebbe sognato di esibirsi. Ma la gloria è sfumata, e ormai il locale sembra destinato a chiudere per sempre. Proprio da qui parte la serie, impostata come un falso documentario in bianco e nero dove la disillusione del proprietario (Lillo) fa il paio con l’ottimismo dell’art director Claudia (Pilar Fogliati), che recluta comici bizzarri e sgangherati per riportare il club ai vecchi fasti, quando a esibirsi era la sua talentuosa zia Tatiana (copyright Gabriele Cirilli). Lungo i sei episodi si snocciolano consigli di ogni tipo, da come stare sul palco al rapporto che si dovrebbe avere con il politicamente corretto, ma c’è spazio anche per l’introspezione con una puntata tutta dedicata al rapporto con la morte.

 

Il cuore produttivo della serie batte in Sicilia. I registi Nicolò Cuccì e Salvo Di Paola fanno parte di Megadrago, il piccolo e agguerritissimo studio palermitano che ha curato l’animazione del progetto. Scorrendo fra i loro precedenti lavori, si capisce quanto “Il Baracchino” sia la summa di anni di ricerca ed esperimenti: un viaggio in tecnica mista che fonde il 2D alla tridimensionalità, sfondando volentieri lo schermo per farci entrare marionette di vera gommapiuma e pupazzi animati in stopmotion. Appare piuttosto evidente il richiamo a “Lo straordinario mondo di Gumball”, cartone statunitense-britannica e ultimo baluardo di Cartoon Network, dato che entrambi fanno della scarsa uniformità stilistica il proprio punto di forza.

 

Ma se in Gumball il doppiaggio è affidato a professionisti, qui la questione è ben diversa. Il cast straborda di comici: Frank Matano, Edoardo Ferrario, Stefano Rapone, Luca Ravenna, Daniele Tinti, Michela Giraud e Yoko Yamada. Molti di questi, ormai, viaggiano in blocco da un progetto audiovisivo all’altro, muovendosi a mo’ di branco fra piattaforme e tv tradizionale quasi come un Frat Pack della stand up comedy italiana. L’idea di coinvolgerli nel doppiaggio, di per sé, è perfettamente coerente con la storia. Peccato però che la mancanza di dimestichezza – e di studio – verso questa professione, per molti di loro si faccia sentire eccome.

 

Solo pochi funzionano abbastanza bene. Per Edoardo Ferrario non è la prima volta da doppiatore (oltre a diversi ruoli in film e serie, è sua la voce di Maradona in “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino), così come per Frank Matano, che recupera la stessa follia utilizzata nel 2014 per doppiare alcuni personaggi secondari di South Park. Dopo il piccolo ruolo di Ansia in “Inside Out 2”, Pilar Fogliati si mette alla prova con un personaggio portante e risulta credibile. Lo stesso vale per Lillo, il quale dopo l’exploit di “Lol” nel 2021 ha preso residenza nella piattaforma di Jeff Bezos. Fra i non citati, qualcuno riesce - talvolta con fatica - a portarsi a casa il ruolo, ma c’è anche chi finisce rovinosamente vittima della sua poca esperienza (non facciamo nomi, vedetevi la serie).

 

Ecco come un prodotto bello da vedere diventa un po’complicato da ascoltare. Vale per i consumatori medi di serie tv, figuriamoci per i doppiatori di professione, irritati dal rischio di farsi sfilare ingaggi non tanto dall’AI ma da tutti quei personaggi - anzi, talent - come cantanti, youtuber e influencer convocati in cabina di doppiaggio solo per trascinare pubblico in sala, o sulla piattaforma. La soluzione da adottare forse sta nel mezzo: un “mix energetico” di professionismo e viralità social che non intacca il prodotto finale, ma anzi lo valorizza (le guest star invitate nelle vecchie puntate dei Simpson sono un ottimo esempio). In questa serie tutto ciò accade a metà, ma forse siamo sulla strada giusta.