l'intervista
Contro la censura c'è una sola medicina: trovare battute nuove, dice Edoardo Ferrario
“Meglio prendere in giro gli elettori, dei politici. Chi parla di censura in Rai torni alle elementari della comicità”. Parla il comico romano
Edoardo Ferrario ride con Paolo Villaggio. “mi continua a stregare, tra cura del racconto, del dettaglio, delle scenografie, cose che dopo i suoi film non si sono più viste”, o con Corrado Guzzanti, “per la precisione nella costruzione dei personaggi”. Sulla scena mondiale il più bravo stand up comedian – ci dice – “resta Louis C. K., mentre la serie comica più bella è di gran lunga ‘The Office’ di Ricky Gervais, quella inglese, con centinaia di epigoni, di derivati”. Questo per sé e, come dire, se non vuole perdere tempo. Altrimenti ride e fa ridere, applicandosi un po’, con ciò che facciamo tutti, esponendoci sulla scena social, mostrandoci in pubblico nel delirio di notorietà che sta travolgendo la nostra società.
“Gli elettori – dice al Foglio – hanno sostituito gli eletti come bersagli comici. La politica non mi entusiasma come terreno di caccia del comico, perché i politici hanno cominciato a usare la comicità per i loro fini, hanno capito che è un linguaggio capace di umanizzare facilmente il potere e chi lo gestisce e hanno cominciato a utilizzarla per avvicinarsi, con una scorciatoia, all’elettorato. Una tecnica usata per primo da Silvio Berlusconi, che aveva capito come la satira lo rendeva un umano e non un compassato politico. Oggi credo che gli uffici stampa siano felici di fare uscire meme di apparente presa in giro. E’ roba che non mi interessa, credo che il comico invece dovrebbe parlare delle proprie fragilità per arrivare al pubblico e continuo a preferire la satira sugli elettori. Anche perché la satira politica, se appena appena è fatta male, finisce per deresponsabilizzare l’elettorato, se la battuta è tutta nel classico politico che ruba o che è volgarmente razzista, mentre a rubare o a essere razzista, caro cittadino, magari sei tu, e allora dare la colpa al politico è solo un giochetto per esentarti. Quello è il grado zero della comicità, in cui si parla a un pubblico già d’accordo con ciò che sentirà dal palco e già pronto a un grande rito autoassolutorio. Invece dobbiamo partire dalle persone, la politica è un riflesso dell’elettorato, tic e difetti cerchiamoli nel bersaglio grosso”.
Poi ti aiutano i social, portando tutti alla ribalta. Nessuno sta più chiuso in casa a irridere, magari attraverso la tv, la scena pubblica, ma siamo tutti sulla scena pubblica, esposti alla presa in giro. “Sì – risponde – l’uomo comune è diventato politico, tutti ci rivolgiamo a una platea. Ne parlo nel mio ultimo spettacolo, ‘Performante’. Sono partito osservando che c’è un benzinaio dietro casa mia che è una TikTok star. E mi fa un certo effetto che si mischino piani che non c’entrano nulla tra loro, come quello del normale lavoro di ciascuno e forme di spettacolo. Rivolgersi a un pubblico ti espone a rischi, sei costantemente sotto un giudizio esterno, non sai che conseguenze può avere la fama o, peggio ancora, la perdita repentina della fama”. Commedia all’italiana e comici come Carlo Verdone, però, se li andavano a cercare i modelli, anche mostruosi, da trasformare in bersagli di comicità, puntando su comportamenti reali, esistenti, anche se non esposti sui social, ovviamente. Adesso è più semplice perché si mostrano da soli.
“C’è una sovraesposizione autonoma, è sempre bene per un comico andare in giro a scegliere e a studiare i caratteri, ma i social aiutano, anche perché qualcuno vive solamente sulle piattaforme, come quelli che hanno ispirato una mia recente caratterizzazione, in cui rappresento un guru del mindset e propongo i suoi metodi per diventare ricchi, per centrare i propri obiettivi, secondo quelle orrende tecniche di lavoro su se stessi. Personaggi, prima della dissacrazione, che riempiono la home di qualunque maschio eterosessuale, perché l’algoritmo ce li indirizza. Devi performare, non avere tempo libero, ma solo obiettivi. Inquietante e comico, insieme”.
Prendersela con i grandi fenomeni sociali ti libera anche dalle preoccupazioni della correttezza politica, dalla paura della censura? “Non del tutto. Bisogna sempre partire dal contesto. Quando sento qualcuno che dice di essere stato censurato su Rai 1 mi viene voglia di farlo tornare alle elementari della comicità. Se tu pensi di poter dire su Rai 1 o su Mediaset quello che dici con gli amici tuoi al bar o nel tuo spettacolo a teatro allora non hai capito niente, non sai stare al mondo. Uno deve capire dove si trova, per me la grande valvola di sfogo è il live, a teatro dico quello che voglio e non mi è mai successo che qualcuno mi dicesse di essere stato offeso per una battuta o di essere stato messo in difficoltà. Il pubblico è sovrano e anche intelligente e si accorge se dici una battuta omofoba o razzista e ti punisce non ridendo e il suono di mille persone che non ridono ti fa passare la voglia di fare quelle battute. E’ diversa la ricezione sui social di certe battute, perché spesso sbagliamo a leggere le reazioni, ingigantendole, anche perché molto giornalismo si fa impressionare da qualche decina di rispostacce sul web e le trasforma in un’ondata di indignazione. Meglio il pubblico vero, dal vivo, per capire cosa è ammissibile e cosa no. Non credo che in Italia ci sia un problema di dittatura del politicamente corretto. In Italia ancora si sentono cose che circolavano in epoche precedenti della comicità e nessuno se ne scandalizza. Tutte le storture di cui parliamo arrivano, invece, dal mondo anglosassone, dove credo che si stia un po’ perdendo la bussola tra cartoni animati censurati e impossibilità di esprimere il proprio punto di vista per paura che qualcuno si possa risentire. Qui siamo ancora relativamente tranquilli, anche perché siamo un po’ arretrati. Mi piace il politicamente corretto quando ti porta a essere originale nella scrittura, credo che un comico possa parlare di tutto purché sia innovativo e non dica cose trite. Se prendi in giro un omosessuale con lo stile caricaturale di quaranta anni fa non fai ridere e ti meriti la censura. Cerchiamo battute nuove e potremo dire tutto, il pubblico è sovrano e capisce che una battuta non è un’offesa ma è più l’avvio di un confronto e il più grave delitto che potremmo compiere è smettere di parlare degli altri per il timore di offendere qualcuno. A quel punto v ivremo in un mondo in cui si professa un’inesistente uguaglianza, metteremo tutti gli emoji con l’arcobaleno nei giorni del gay pride, ce ne staremo ciascuno con la propria diversità, fregandocene l’uno dell’altro”.
Scrittori del novecento