(screenshot dalla "Storia", fiction Rai)

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La Rai e il trionfo della fiction

Andrea Minuz

“La Storia” di Elsa Morante come il prequel di “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. Un prodotto popolare oggi si costruisce così, parlando al pubblico più sottovalutato: quello della cara vecchia televisione generalista

Il tempismo è tutto, il caso fa il resto. Non poteva esserci momento migliore per mandare in tv “La Storia”, intesa come Elsa Morante, serie-evento, fiction di qualità, mini-blockbuster letterario in quattro puntate, progettato da Rai Fiction per celebrare i cinquant’anni del romanzo, ma subito sintonizzatosi sulla lunga onda emozionale di “C’è ancora domani”. Sembrava in effetti di vedere un crossover, un remix, uno spin-off del film rivelazione dell’anno che continua a incassare in sala. Paola Cortellesi in bianco e nero sfuma in Ida Ramundo virata in seppia su Rai Uno, l’eroina-vittima di Elsa Morante che nella fiction ha il volto scavato e la pupilla non si sa perché sempre dilatata e atterrita di Jasmine Trinca. Di nuovo donne forti in un mondo feroce, di nuovo la cronaca che si fa Storia, la gente semplice, la Roma popolare del Dopoguerra, anche gli stessi quartieri, San Lorenzo, Testaccio, Ostiense, di nuovo lo splendore di un neorealismo in green-screen, di nuovo Valerio Mastandrea in canotta e col baffo (volendo c’è anche un po’ di Moravia, con molte scene girate in Ciociaria). E guardando in tv questa Elsa Morante cortellesizzata all’improvviso l’illuminazione: la forza imprevedibile di “C’è ancora domani” sta proprio qui, nella piena sovrapposizione col mondo della fiction Rai.

 

Se le serie-evento sembrano ormai film a puntate, “C’è ancora domani” parla il linguaggio della tv generalista e anche per questo riesce a portare tutti al cinema (sarà capitato anche a voi: persone insospettabili, persone che non abbiamo mai sentito parlare di cinema, ci implorano di andarlo a vedere da quando è uscito). “C’è ancora domani” è fiction nel modo di raccontare, nella messa in scena kitsch e patinata del passato, nella pasta visiva delle immagini, nella violenza negata allo sguardo, nel cast e nel birignao romanesco. Il pubblico di “C’è ancora domani” è quello del “Paradiso delle signore”, ma in missione civile, in bianco e nero, versione “fiction prestige”, col plot-twist che ribalta la vicenda, come dicono quelli bravi, o col “finale a sorpresa” come dicono tutti gli altri. Un finale che le fiction non possono permettersi, un po’ perché non finiscono mai, un po’ perché mentre si architetta il colpo di scena, siamo andati di là a prendere da bere, rispondiamo al telefono, ci mettiamo il pigiama, e non ci si capirebbe nulla. “C’è ancora domani” ha la forza della grande fiction e delle serie-evento, e sia detto questo senza alcuno snobismo o ironia. E’ così che si progetta oggi un prodotto popolare. Immaginando di parlare a quel pubblico che in Italia guarda soprattutto la televisione, non certo i film al cinema, e neanche Prime Video, l’ultima serie tedesca su Netflix, Sky, Hbo, ma la cara vecchia tv generalista. Anche perché nel paese senza banda larga, Rai Uno si prende meglio di Netflix. E’ quel pubblico che si sente ancora al sicuro nel palinsesto, che passa dalle soap a “Un posto al sole” e alle serie d’ambientazione storico-civile in prime-time, su Rai Uno, quando entra in scena la grande letteratura. Nel paese del melodramma e dei “Promessi Sposi” (la Bibbia di ogni sceneggiatore italiano che aspira al pubblico popolare), per essere popolari bisogna fare i conti col kitsch. E oggi nessuno meglio di Rai Fiction sa interpretare questo grande sentimento collettivo. Ecco dopo Elena Ferrante, Elsa Morante. La scelta di serializzare “La Storia” come “period drama” appare davvero emblematica. Non solo perché siamo in pieno algoritmo Rai Fiction (vicende esemplari di donne sullo sfondo della storia del paese), ma perché tutte quelle cose che cinquant’anni fa, soprattutto a sinistra, si rimproveravano al romanzone di Morante (troppo immediato, troppo comunicativo, lacrimevole, patetico, un feuilleton qualunquista, ricattatorio, con una prosa marpiona, o come diceva con disprezzo massimo Asor Rosa, “scritto nel linguaggio della pubblicità”), sono diventati oggi i suoi punti di forza. Tutti capi d’imputazione, peraltro, che si potrebbero muovere al film di Paola Cortellesi. Critiche che nessuno si è sognato di fare, fosse pure col massimo garbo, perché davanti a un successo straripante e al contenuto civile ormai si sospende ogni giudizio (e poi dei “problemi della forma” di film o romanzi, che solo a scriverlo mi fa sentire vecchissimo, non frega davvero più niente a nessuno). Proprio il confronto tra “La Storia” ripetuta due volte, prima come Elsa Morante poi come serie tv, dà la misura di come sia cambiato il fatidico “ruolo degli intellettuali”, che all’epoca vedevano nell’eccesso di consenso, nella tirannia delle emozioni, nella presa sul pubblico spontanea e irrazionale i massimi pericoli di un’opera (e anche qui nessun rimpianto per quel linguaggio politico-militare, con Calvino, peraltro tra i più moderati, che parlando del romanzone di Morante diceva che un narratore può far ridere o far paura al suo lettore, ma “farlo piangere proprio no”). Viva la Rai allora che raccoglie e celebra in forma di fiction quella scandalosa vocazione generalista di Elsa Morante che indignava Asor Rosa, Rossana Rossanda, Nanni Balestrini, persino Pasolini, vicino più di tutti alla scrittrice, secondo l’indiscutibile dogma “se è un bestseller non è letteratura, se è letteratura non è un bestseller”.


Il pubblico di “C’è ancora domani” è quello del “Paradiso delle signore”, ma in missione civile, in bianco e nero, versione “fiction prestige”


Rai Fiction ha risolto queste vecchie contraddizioni ideologiche riversando in prima serata, in forme più o meno riuscite, più o meno kitsch, una marea di letteratura, classici, meno classici, bestseller, da Stendhal a Elena Ferrante, da Tolstoj a Vasco Pratolini, riadattando vecchi film civili per il pubblico televisivo, ripercorrendo in lungo e in largo la storia patria, senza contare la marea di ritratti, biopic, santini, agiografie, casi di cronaca. Grazie alla benemerita concorrenza di Mediaset e poi di Sky e poi delle piattaforme, la Rai è stata via via costretta ad alzare la qualità delle sue produzioni. La fiction Rai non è più quella presa per il culo in “Boris”.  Roba tirata via, fatta in fretta, per un pubblico di bocca buona. Come già l’Aldo Moro serializzato di Bellocchio o “L’amica geniale”, “La Storia” è di fatto un film che fino a pochi anni fa sarebbe andato dritto dritto in sala, passando da Venezia (regia di Francesca Archibugi, fotografia di Luca Bigazzi, musiche di Battista Lena, cast da David di Donatello, sceneggiatura di Francesco Piccolo, Ilaria Macchia, Giulia Calenda, che non a caso ha scritto anche il film di Cortellesi). Solo che al cinema l’avrebbero visto quattro gatti, non i quattro milioni e passa della prima puntata andata in onda lunedì. Le serie-evento, specie quelle ricavate dalla grande letteratura, sono soprattutto concepite come valida risposta all’annosa domanda: perché continuare a pagare il canone? Ecco la missione civilizzatrice di Rai Fiction: coi telegiornali che franano negli ascolti, con talent e reality che ritroviamo più o meno uguali su Mediaset, sono le fiction (exploit di Sanremo a parte) a tenere in piedi la baracca. A dare un senso al canone in bolletta. Col pubblico che magari oggi infila nel carrello di Amazon “La Storia” di Morante, romanzo all’epoca discusso con ferocia, poi dimenticato. Ed è subito alfabetizzazione del paese.


Le cose che 50 anni fa, soprattutto a sinistra, si rimproveravano al romanzo di Morante, sono diventati oggi i suoi punti di forza


Mediaset e Rai possono assomigliarsi in tutto, ora persino nei tg, ma è nella fiction che emerge lo scarto tra i due mondi. Quello di Rai Fiction è un sistema complesso che viaggia tra i 160 e i 200 milioni di euro l’anno di finanziamento. E’ fatto di piani bassi, medi, alti. Tutto il daily delle soap, e poi “Un posto al sole”, “Don Matteo”, Imma Tataranni, Montalbano, Lobosco, Alessandro Gassman professore di filosofia, eccetera. Poi i piani alti, attico e superattico. I grandi registi, i film-tv, l’arthouse-prestige delle grandi serie, i blockbuster di Rai Fiction che inorgogliscono l’azienda, gli abbonati, la nazione, che fanno dire “che bello quando la Rai fa la Rai”. Benché costose, le serie-evento sono un prodotto sicuro. Fare fiction con la Rai conviene, e per i produttori il rischio d’impresa è basso. La Rai copre un po’ di spese e oltre ai passaggi televisivi e le vendite all’estero, se la serie è andata bene, con le repliche ci si assicura un’altra fetta di guadagno (si pensi al business delle repliche di Montalbano). Tutti i produttori vorrebbero fare fiction con la Rai, però non è facile. Bisogna entrare nel giro. Tutto si muove del quadrilatero di Prati, intorno a Viale Mazzini, nei luoghi caldi della compravendita delle storie, tra il caffè Settembrini e il bar Vanni. Ufficialmente c’è un sito, anzi un “portale”, il “portale trasparenza” (“rapporti con i produttori indipendenti – presentazione online di proposte di progetti audiovisivi”). Tutto un formulario da compilare inviando concept, reference (“italiane e internazionali”), soggetto, trama, personaggi, budget indicativo del vostro tv movie. La Rai si impegna a “manifestare o meno un interesse per il progetto entro novanta giorni”, specificando però che “l’assenza di risposta equivarrà a risposta di non interesse”, e aprendo così al dubbio che dall’altra parte non ci sia nessuno. Perché come recita un vecchio haiku di Viale Mazzini, “per fare una fiction con la Rai bisogna prima aver fatto una fiction con la Rai” (inviando il progetto, del resto, si deve segnalare se si fa già parte del fatidico “elenco fornitori Rai”). Questo sistema di fornitori Rai diventa così, di fatto, un piccolo studio system all’italiana, con le sue major che si spartiscono il grosso della produzione di fiction e serie nazionali: la Lux Vide fondata da Ettore Bernabei, specializzata in biopic spirituali e inventrice di “Don Matteo”, la Palomar di Carlo Degli Esposti, che sin dal nome calviniano predilige il taglio letterario e nella sua library vanta l’exploit di “Montalbano”, la Publispei di Carlo Bixio, venuta su con Sanremo, poi entrata col botto nel mondo della fiction con la doppietta “Un medico in famiglia” e “I Cesaroni”, la Picomedia di Roberto Sessa, “storie di impegno civile e di vite comuni”, recita il claim dell’azienda, che ha prodotto “La Storia” e sbalordito col successo incredibile di “Mare fuori”. Un sistema all’americana, con una fitta filiera professionale, che riesce in imprese impossibili per il cinema italiano. Per esempio, catturare appunto il pubblico “teen” di “Mare fuori”, un fandom pazzesco, numeri esorbitanti con cui nessun Sorrentino-Garrone-Rohrwacher-Cortellesi può competere. Forse solo i “Me contro te”. Un sistema, quello di Rai Fiction, che deve molto alla governance di Tinny Andreatta, oggi a capo di Netflix Italia. Andreatta ha rilanciato la produzione, ha pensato in grande, ha stretto accordi internazionali. Serie e fiction italiane iniziavano a circolare all’estero. La partnership Rai-Hbo per “L’amica geniale” ha messo il sigillo a questa nuova fase.


Quello di Rai Fiction è un sistema complesso che viaggia tra i 160 e i 200 milioni l’anno di finanziamento. E’ fatto di piani bassi, medi, alti


Se nei pub inglesi si vedono Montalbano, se “Braccialetti rossi” in America l’ha prodotto Spielberg, lo si deve anche a lei. Per trovare prodotti Rai così esportabili bisogna tornare all’“Odissea” del ‘68, forse a “Sandokan”. Ora c’è Maria Pia Ammirati, ma la musica non cambia, la macchina è collaudata. Si possono sostituire i vertici, possono cambiare i governi, ma Rai Fiction non si scompone. E’ un sistema elastico. Una serie su D’Annunzio o i corazzieri per far contenti i patrioti non sposta gli equilibri interni. Merito anche di Francesco Nardella, vicedirettore, responsabile del coordinamento editoriale della fiction, sempre un passo indietro, nell’ombra, in Rai dal 1983, a Rai Fiction dal 2013. C’è lui dietro “I Medici”, “Braccialetti rossi”, “La porta rossa”, “La mafia uccide solo d’estate” e molto altro. Un sistema, appunto. Un taglio e una mentalità industriale che al cinema da noi manca: serie, costole di serie, cast trapiantati da una serie all’altra, prequel, derivati, sottoderivati, come “Che Dio ci aiuti” che è uno spin-off di “Don Matteo”, un universo narrativo espanso, un media-franchise replicabile all’infinito, coi preti al posto degli Avengers. A differenza del cinema, la fiction ha poi uno star system che fa presa sul pubblico, anche se tendiamo a sottovalutarlo.


Un sistema all’americana capace di imprese come catturare il pubblico “teen” di “Mare fuori”, un fandom pazzesco, numeri esorbitanti


Lino Guanciale, Alessio Boni, Serena Rossi, Maria Chiara Giannetta, i pischelli di “Mare Fuori”. Uno star system elastico rispetto alla galassia GF di Mediaset, perché Lino Guanciale può fare il valletto a Sanremo, ma Ilary Blasi difficilmente può finire in una fiction. Scene folli per gli attori di “Un posto al sole” o del “Paradiso delle signore”, fermati per la strada, bloccati dalla gente, come raramente capita ai nostri David di Donatello, con quelli che domandano disperati “perché hanno ucciso Vittorio Conti?! Cosa c’è dietro?”, “Ditemi, tornerà la contessa Adelaide?”. Un modo viscerale di seguire le storie, come all’epoca del neorealismo rosa. E quando mi è capitato di assistere a scene del genere, si trattava perlopiù di giovani o anche ragazzini. Un errore insomma pensare che queste cose siano viste solo da un pubblico anziano. Può sembrare così guardandole da Milano o Roma, ma l’Italia non è Milano o Roma. Il fenomeno della visione collettiva appartiene alla fiction. Il modo in cui queste storie si legano alle vite delle persone non ha eguali nel cinema. E se il finale di stagione del “Paradiso delle signore” lo facessero in sala, chissà, forse batterebbe anche il film di Cortellesi.

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