il meglio dell'anno

Le dieci serie che nel 2023 ci hanno tenuti incollati alla tv

Mariarosa Mancuso

Grandi storie sul piccolo schermo: dal terrore di Poe alla caotica ristorazione di Chicago

THE FALL OF THE HOUSE OF USHER di Mike Flanagan (Netflix)


Un ragazzo di buone letture. E quando gli sceneggiatori sono in crisi i libri forniscono ottimi suggerimenti. Mike Flanagan ha trasformato in una mini-serie antologica il romanzo di Shirley Jackson (“The Haunting of Hill House”) e “Il giro di vite” di Henry James (“The Haunting of Bly Manor”). Conta sul fatto che lui i romanzi li ha letti, e il pubblico quasi mai, quindi si prende ogni libertà. Nel caso di Edgar Allan Poe il gioco funziona meno bene, i racconti li conosciamo, “Il crollo della casa Usher” in particolare. Bisogna portare pazienza. Mike Flanagan comincia in modo sconcertante con un prequel. Lo spettrale Roderick Usher e la malatissima sorella Madeline godono di ottima salute. Il capofamiglia ha sei figli, spinti a far crescere il business degli Usher senza badare troppo all’etica e al giuramento di Ippocrate. Le case farmaceutiche fanno alti profitti, finché non entra in scena la Morte Rossa, che nel racconto di Poe interrompeva allo scoccare della mezzanotte una festa mascherata: sotto il sudario, niente.

   

YOU di Sera Gamble e Greg Berlanti, con Penn Badgley (Netflix)


Ora la serie va su Netflix. Era nata su Lifetime, con una libertà di racconto sfuggita ai divieti dell’algoritmo. Tratta dai romanzi di Caroline Kepnes, la prima stagione apriva con una scena in libreria. Sappiamo che nei film e nelle serie i libri significano “stranezza”, e pure “pericolo”. Ma il giovane commesso era carino, colto, capace di indovinare i gusti della bella fanciulla bionda. Diffidare, è la lezione. Diffidare non soltanto dei maleducati complimenti da strada: la versione colta dello stalker è più pericolosa. Non dovremmo vedere queste cose, secondo i poveri di spirito convinti che la finzione faccia male (si sa dai tempi della tragedia greca che è vero il contrario). Stagione dopo stagione, il libraio Joe Goldberg curiosa nelle vite degli altri, in cerca di una simbiosi che alle ragazze non fa mai bene. Alla stagione numero 4, Joe è cresciuto, ha messo su famiglia, è diventato padre, ha la barba e fa il professore di letteratura in un college britannico. Luogo di non specchiata moralità, come sappiamo dal romanzo “Dio di illusioni” di Donna Tartt.

  

   

FLEISHMAN A PEZZI di Taffy Brodesser-Akner, con Jesse Eisenberg (Disney+)


One man show, costruito attorno a Jesse Eisenberg – il Fleishman del romanzo di Taffy Brodesser-Akner, nata a Brooklyn in una famiglia di ebrei ortodossi. La moglie Claire Danes sparisce lasciandolo solo con i figli che reclamano la colazione (un classico, dopo il french toast di “Kramer contro Kramer”, Dustin Hoffman neo-separato non li sa preparare). Furoreggiano le prime app di incontri, un sogno: “donne che ti cercano per fare sesso”. Qualche nudo, notevole perché la serie è su Disney+. Il figlio piccolo appassionato di scienza cerca su internet “come sono fatte le ragazze, là sotto”. Guarda, e rimane traumatizzato. La figlia pensa solo agli Hamptons: non potrà andarci senza la madre che porta a casa i soldi veri. Lo stipendio del genitore medico ospedaliero ne fa un poveraccio, rispetto al collega che ha chiamato la villa Paniquil: l’antidepressivo che l’ha reso miliardario, a furia di prescrizioni. 8 brillanti puntate, ed è una gioia sapere che non faranno una seconda stagione stiracchiata.

   

    

SUCCESSION di Jesse Armstrong, con Matthew Macfadyen (Sky Atlantic)


Succession” sta nella lista perché non può non esserci. Perché ancora sentiamo dire “non c’è nulla di interessante” da chi non ne ha visto neppure una puntata. E magari ha visto tutto “Bridgerton” (qualche attore nero qua e là, ed ecco reinventata l’Inghilterra Regency, periodo che nessuno aveva ben chiaro in testa). Oppure ha divorato “The Gilded Age”, l’età dorata – come la battezzò Mark Twain: la quinta strada di New York era sterrata, le prime ville si spingevano fin lassù, e non c’era ancora il ponte di Brooklyn, solo un traghetto. Anche qui, serve una ragazza nera, uscita dalla prima università che le accettava. In “Succession” sono tutti bianchi, ricchi, capitalisti, proprietari di giornali e televisioni e parchi di divertimento – dove succedevano brutte cose che ora bisogna ripulire per l’onore della ditta. Due figli e la più sveglia figlia femmina Shiv si disputano il patrimonio di Logan Roy, genitore tanto crudele da avere malori molto gravi, mai fatali. Bisogna vedere “Succession” come bisogna vedere “I Soprano” di David Chase: l’arte ha i suoi vertici sublimi.

    

  

CALL MY AGENT - ITALIA regia di Luca Ribuolo  (Sky Serie) /DIX POUR CENTdi Fanny Ferrero (Netflix, con il titolo “Chiami il mio agente!”)


In principio era “Dix pour cent”, la serie francese sulla vita degli agenti che curano gli interessi degli attori, contratti, interviste, partecipazioni speciali. Distribuito per gli spettatori italiani da Netflix, che lo ha ribattezzato “Chiami il mio agente!” – gli assatanati erano già andati a vederlo su France Télévisions, troppe erano le lodi per la serie che costruiva ogni episodio attorno a un attore, prendendolo in giro. C’era Monica Bellucci, per esempio, che invece di un ruolo chiedeva al suo agente un fidanzato. Impossibile non ricordarlo quando la vediamo con Tim Burton, felice e giocherellona. Il remake italiano – “Call my agent – Italia”, titolo imposto a tutte le versioni “locali” – è andato piuttosto bene. I copioni erano gli stessi, più meno adattati – bisognerebbe solo dire agli scenografi che un’agenzia vera è molto più disordinata. La location ha le finestre su Piazza del Popolo a Roma – un tantino esagerata. Paolo Sorrentino inventa una trama assurda per spaventare gli agenti, che subito se la bevono. Stefano Accorsi ha l’horror vacui – come Isabelle Huppert nell’originale francese, che si addormenta su un set.

    

 

THE BEAR di Christopher Storer, con Jeremy Allen White (Disney+)


No. Non è un documentario di National Geographic che illustra la vita dei plantigradi (se interessa il genere, crudeltà animale e stupidità umana, c’è “The Grizzly Man” di Werner Herzog). L’orso è l’incubo che rovina i sonni di Carmelo detto Carmy, che aveva un bel ristorante, e dopo la morte del fratello si ritrova a gestire una friggitoria sull’orlo del fallimento. Siccome è italiano gli chiedono di cucinare spaghetti, lui si rifiuta. Lo staff è quello che è, Carmy cerca di migliorarlo ma neppure lui può fare miracoli. Panino dopo panino, alla seconda stagione della serie Carmy riesce a mettere su un ristorante che possa dirsi tale, ma i soldi sono sempre  pochi. Gente che si agita in cucina – o non si agita, ma dà giudizi che sarebbero più adatti alle scuole dell’obbligo – ne abbiamo vista tanta. Questa – che è fiction pura – sembra tanto più vera dei reality con i cuochi impiattatori: il cibo arriva freddo, colpa dell’ultima fogliolina. Notare, alla fine della prima stagione, l’irresistibile pronuncia americana di “braciola”.

    

   

THE BEEF di Lee Sung Jin, con Ali Wong e Steven Yeun (Netflix)


Evviva, ci sono i cattivi. Pure l’arte contemporanea – non essenziale, ma dimostra che non siamo nella fantascienza, e neppure nei costumi di “Bridgerton”, con un cast multicolore (non previsto dalla scrittrice Julia Quinn, che voleva soltanto ambientare il suo romance – “idillio o storia d’amore”, il più adulto e maturo romanzo si dice “novel” – nel periodo Regency). Per gli allergici a parrucche e corsetti e storie già viste c’è “The Beef”: comincia con una lite da parcheggio, in California. Tra Amy, ricca signora cinese con il Suv, e Danny, coreano che fa l’idraulico e guida un furgoncino malmesso. I clienti non sempre pagano e gli affarucci extra sono rischiosi. Inseguimento sulle aiuole, spazzatura sul parabrezza ed è solo l’inizio. Danny si presenta a casa di Amy – la comica Ali Wong, ci sono un paio di spettacoli suoi su Netflix, con lei incinta: “voi pensate di partorire un bambino, ma quello si porta dietro tutta la sua cameretta” – va in bagno e piscia sui tappetini candidi. 10 episodi di ordinaria follia, con titoli rubati a gente come Werner Herzog o Sylvia Plath.

   

   

THE WHITE LOTUS di Mike White  (Sky Atlantic)


Serie antologica. Come “Feud”, che racconta i grandi litigi hollywoodiani. O “Fargo”, ispirato al film dei fratelli Coen, ma con una storia diversa ogni volta. “White Lotus” va di grande albergo in grande albergo. Sempre con il morto. Secondo la lezione di James Ballard: un paradiso non è tale senza un serpente (se poi si cerca di eliminarlo, rendendo tutto perfetto, troverà il modo di rientrare). Il cadavere (come nella prima stagione ambientata in un esotico resort) appare subito. Qui, a una turista che nuota di fronte a Taormina – o nel patchwork di spiagge e paesaggi siculi che lo scenografo ha costruito attorno all’hotel San Domenico Palace, che davvero esiste. L’esotismo, per il pubblico internazionale, passa dalle Hawaii alla Sicilia: i ricchi di origine italiana tornano in cerca delle radici. Dirige l’albergo, sbrigando con tutte le grane sempre issata sui tacchi, Sabrina Impacciatore. Le belle ragazze locali cercano di infiltrarsi nella hall. Potrebbe uscirne una serata ben pagata o addirittura un interessante matrimonio.

    

   

LA FAMIGLIA DEI DIAMANTI di Rotem Shamir e Yuval Yefet (Netflix)


Parliamo la lingua dei diamanti dal 1447”. Un gran bel biglietto da visita per l’antico – ma ancora in attività – quartiere di Anversa dove si lavorano i diamanti. Produzione belga, ma showrunner che arrivano da “Fauda”. Yanki Wolson, ramo diamanti da generazioni, si è sparato in ufficio, lasciando a casa un prezioso orologio. Viene seppellito sotto la pioggia, dopo un’accesa discussione sul loculo che gli spetta (i vicini potrebbero non gradire, e infatti non gradiscono). Da Londra arriva il fratello Noah, che aveva lasciato il business di famiglia 15 anni prima. E anche una fidanzata, sposata dal fratello secondo tradizione. Nessuno gli aveva chiesto cosa gli sarebbe piaciuto fare da grande, il lavoro dei diamanti è un peso e un privilegio, di padre in figlio (qui nel business c’è anche una figlia, l’eccezione viene sottolineata). La lingua dei diamanti è la stessa, le parole d’ordine “onore, silenzio, qualche sussurro” sono disattese. Non si guadagna come prima e sono arrivati gli albanesi. “Liquidate tutto, siete finiti”, suggeriscono gli ex soci in affari – e siamo al primo episodio. 

 

    

LA FANTASTICA SIGNORA MAISEL di Amy Sherman-Palladino, con Rachel Brosnahan (Prime Video)


Sicuro, la signora Maisel. Non l’abbiamo dimenticata, e abbiamo già perdonato il cedimento dopo le prime stagioni. Ora siamo alla quinta, e ultima. Mrs Maisel è la moglie tradita che per dispetto contro il marito fuggito con la segretaria – “una che non sa neppure usare un temperamatite elettrico” – va in un locale open mic, dove i comici fanno allenamento. Sale sul palco ubriaca e mezza svestita, come si trovava a casa sua nel momento della rivelazione, e fa del tradimento un numero di cabaret (nel locale dove il marito, che aspirava a fare il comico, non aveva strappato neppure una risata). Un po’ di tempo è passato, ora siamo negli anni 60 e Midge Maisel fa l’autrice in un talk show (che negli Usa sono scritti, per questo sono più divertenti dei nostri). Unica donna combattiva  in mezzo agli uomini. Per un confronto, guardare la writer’s room di “30 Rock”, altra bella serie con Tina Fey: i maschi vestiti casual tranne un nero che veste solo maglioni a rombi Ballantyne. C’è un po’ di “Mad Men”, e una ricostruzione d’epoca sempre smagliante.

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