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Qualcosa non funziona a Sanremo

Simonetta Sciandivasci

Ci avrebbe deluso anche se fosse stato eccezionale, ma il Festival comincia giù di tono. Amadeus, Fiorello, Madame, Noemi e i Coma Cose, comunque, valgono la pena

Visto? Non sono riusciti a cambiarci. La canzone più brutta - no, peggio: la più insignificante – delle prime tredici in gara, quella di Annalisa, è al primo posto della prima classifica. La migliore, quella di Madame, è al terz’ultimo. Se Ghemon e Ajello, rispettivamente dodicesimo e tredicesimo classificato, ovverosia penultimo e ultimo, si fossero meglio vestiti, sarebbero arrivati parecchio più in alto, ma qualcuno doveva pur pagare per tutto il malvestitismo esibito e naturalmente non potevano essere le donne, che peggio si vestono e più sono venti che cambiano i deserti.

   

Matteo Renzi non ha twittato niente, ma maligni e superbi hanno sperato che lo facesse, e non per intestarsi qualcuno o qualcosa, ma solo per dire: visto? Visto che, quando potete votare, lo fate male? Visto che c’era bisogno di far cadere il governo in mezzo a una pandemia? Visto che, da soli, mai e poi mai avreste scelto Draghi, anche se aveste potuto farlo? Visto come vi conosco? Visto a cosa servo? Eccetera.

  

Matteo Salvini, l’amico risanato, ha taciuto sulle sue preferenze, ma ha scritto che bisogna ricordare quanto stanno soffrendo i lavoratori dello spettacolo: aiutarli è una delle priorità della Lega. L’indicibilità del male di questo festival è tutta qui, dove prima c’era via gli italiani di seconda generazione dall’Ariston e adesso c’è sosteniamo i circoli Arci.

  

Al Sanremo della pandemia non si può che esser grati per il coraggio, la tenacia, gli sforzi, tutto il resto è accanimento, crudeltà, bar sport, e però che non siano state cinque ore indimenticabili è innegabile persino per un bambino che si perda nel centro di Bologna. Di belle canzoni ce ne sono poche, e anche quelle belle non scavano, segnano, rapiscono. A eccezione di Madame, che ha fatto quasi piangere persino le poltrone vuote – regia, per favore, si eviti di riprendere ancora la platea deserta, qua nessuno ha voglia di un film di Lars Von Trier (antico detto trappista). 

   

      

Come da tradizione, le nuove proposte sono vecchie, a Sanremo i veri conservatori sono gli adolescenti da molto prima che arrivassero Greta Thunberg e i cancellatori culturali, però tutti e quattro i non big ascoltati ieri sapevano stare sul palco meglio di certi avvezzi adulti. Fedez era quasi paralizzato e naturalmente in lacrime, disorientato dal repentino cambio di latitudine, costretto a indossare camicia giacca cravatta (viola, giusto per portare un altro po’ di bene al teatro), lui che da dodici mesi vive a torso nudo su un divano vista CityLife. Povero cuore. Il duetto con Michielin, comunque, non è stato male nonostante l’orrido nastro che legava i microfoni dell’uno e dell’altra, a voler significare non è chiaro cosa, probabilmente che c’è sempre un filo che ci tiene uniti, anche quando siamo distanti, oppure che ci siamo portati il cappio da casa, oppure che come ha scritto Fabio Vassallo è giusto ricordare anche la molta carta igienica versata in questa pandemia.

 

     

Fedez e Michielin sono però stati surclassati dai Coma Cose, che hanno cantato guardandosi negli occhi, disposti uno di fronte all’altra, a distanza d’insicurezza, quella che soltanto i congiunti (cosa che loro sono) possono permettersi, vestiti con gli stessi colori, le stesse fantasie, gli stessi occhi, rossi anche se marroni. Sembrava avessero appena finito di sposarsi oppure di scopare, due cose che a quelli che si amano davvero vengono bene e producono il medesimo effetto distensivo, la medesima dose di eternità momentanea. I Coma Cose sono una delle cose migliori capitate al nostro paese, quindi siete pregati di far televotare per loro anche i vostri zii d’America, cerchiamo di non farci riconoscere, cerchiamo di non arrivare a sabato con Orietta Berti nel podio e loro in coda, il mondo ci guarda (ed è piuttosto incazzato). Questo verso vale una carriera, o almeno un festival: “Grattugio le tue lacrime, ci salerò la pasta”.

 

          

Max Gazzè ha cantato “Il farmacista” con addosso un vestito che era migliore della canzone, ma siccome è Max Gazzè qui non se ne parlerà che bene, lui ha fatto alla musica italiana quello che Draghi potrebbe fare alla politica italiana e dovremo riconoscerglielo fino all’ultima notte del mondo. 

   

     

Gli attesissimi (da parenti e amici) Colapesce e Di Martino una noia mortale, invecchiati male come tutti i millennial, generazione che ambisce alla pensione da prima del diploma: tra tre giorni li adoreremo. Arisa ha cantato una canzone spaventosa di Gigi D’Alessio, vestita da provveditorato agli studi di genere, con i capelli raccolti in un tubo, dieci centimetri di unghie attaccate alle dita con la vinavil: soltanto lei e Loredana Bertè riescono a essere tanto signore nel non essere signore. Fantastica, fantastiche. Su Loredana Bertè non c’è da dire che altro che questo: Loredana Bertè. E provateci voi a essere descrivibili soltanto con il vostro nome e cognome.

   

Noemi è l’unica ad aver azzeccato un vestito (e vedrete se non le verrà rinfacciato d’essere un’ancella del patriarcato, dopo che peraltro ha avuto la pessima idea di rilasciare un’intervista nella quale si è data della terrificante buzzicona, scatenando moltissime ire di irritabili, che si sono sentite offese poiché a parere loro una donna che dia della buzzicona a sé stessa, oltre a indurre all’anoressia le quindicenni, propala bodyshaming). Noemi ha la voce più incredibile di tutti. Noemi merita il podio. Ajello, per carità, si levi quegli orecchini e magari riusciremo ad ascoltarlo cantare – se è proprio necessario. Francesco Renga vive evidentemente sotto formalina, esce giusto in febbraio le volte che va al festival della canzone italiana, sempre con la stessa canzone, lo stesso vestito, lo stesso parrucchiere, diamogli un sottosegretariato all’immutabilità.

  

Fiorello e Amadeus sono Fiorello e Amadeus. Formidabili. Bravissimi. Fiorello ha aperto insistendo sull’indicibilità più grande e cioè che si può stare bene senza pubblico di mezzo così come si può stare bene senza gli altri di mezzo, perché gli altri sono l’inferno, occupano il tuo tavolo, ti si siedono davanti con i capelli cotonati non facendoti vedere niente, parcheggiano in doppia fila, si offendono se dici che sei una buzzicona, se dici cazzo, se dici femmina, se dici maschio, se dici bella: si offendono se dici. Meno male che c’è Fiorello. E Amadeus, che lo fa risplendere. Ma qualcosa non funziona, i teatrini sono troppi, spesso deboli, il siparietto con Ibra è noioso, Matilda De Angelis è brava ma si vede che ci odia, è di quelle persone che dicono i nomi inglesi con l’accento inglese. Nessuno ha detto niente, non c’è stata una frase memorabile, un verso, un momento, una battuta, uno sketch, un errore, un dettaglio che desse la misura, la direzione, il senso. Achille Lauro ha letto un sermone prevedibile, così come ormai è prevedibile questo suo tenersi in bilico tra Velvet Goldmine e Radio Maria.

 

Ci sono molte cose belle ma nessuno a raccordarle.

 

Si può fare di più: per favore, si faccia.

 

Ps. Pronostico: Orietta Berti, stasera, sarà la migliore.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.