Matteo Salvini ospite di Giovanni Floris a Di Martedì su La 7(Foto Imagoeconomica)

Gli applausi nei talk-show andrebbero aboliti, è questione di democrazia

Federico Mello

Le arene televisive si eccitano e il pubblico si trasforma in vox populi. L'intervista di Floris a Salvini 

Gli applausi nei talk-show andrebbero aboliti. E non per una questione estetica, che troppi applausi suonano volgari, come le risate finte nelle sit-comedy. Né per una questione di ordine pubblico, ché lo spettatore da casa arriva a dubitare delle facoltà logiche del paese quando la stessa platea si spella le mani sia per Salvini che per la Fornero. No!, gli applausi nei talk-show andrebbero aboliti perché annichiliscono il senso più profondo – ed etico – del lavoro giornalistico, che è (o dovrebbe essere) quello illuminista di fare luce (sui fatti) e lo trasformano nel suo opposto: dare luce (a qualcuno), attività tipica della propaganda.

 

Badate bene: qua non si sottovalutano le necessità dei talk-show, le loro esigenze di share, di catturare l’attenzione di un’audience sempre più frammentata: è chiaro (non da oggi) che il sostantivo talk sia solo un aggettivo di show; il parlare è un pretesto per lo spettacolo. Eppure non si può rimanere ciechi davanti al fatto che l’irrefrenabile scrosciare di mani in molti contenitori di informazione distorce completamente la percezione dei contenuti veicolati e avvantaggia la propaganda demagogica. Nella grammatica televisiva, infatti, il pubblico in studio rappresenta ipso facto il pubblico a casa; quelle poche decine di persone risultano a chi guarda i delegati di 60 milioni di italiani.

 

 (Foto Imagoeconomia)

 

La reazione del pubblico in studio, dunque, inevitabilmente viene percepita dallo spettatore come vox populi, “volontà generale”. Si tratta di una distorsione, non c’è dubbio – così come lo sono i like su Facebook – eppure è una distorsione che assume un peso decisivo nel discorso pubblico: un politico applaudito appare illuminato da un’aureola di consenso, di voti, di amore popolare. Il problema però, come numerosi studi hanno verificato e come i retori sanno dalla notte dei tempi (Barabba è sui loro vessilli), è che un pubblico non specialistico, poco avvezzo alla materia trattata, quando assiste a un contraddittorio tra un politico e un giornalista risponde con applausi a stimoli emotivi più che ad argomentazioni, a frasi a effetto più che a spiegazioni (fenomeno ancora più accentuato quando quello stesso pubblico è pagato tre euro all’ora, come molti dei figuranti da talk).

 

Prendiamo l’ultima intervista di Giovanni Floris a Matteo Salvini per esempio; un’intervista ineccepibile dal punto di vista giornalistico, con un Floris preparato e incalzante. Eppure nei quarantuno minuti di intervista (compresa pubblicità e servizi esterni) si possono contare ben 44 applausi, di cui 28 a Salvini, 13 a Floris e 3 dubbi (non chiaramente attribuibili né all’uno né all’altro). Salvini ne esce fuori come un eroe – e non a caso sulla pagina Facebook del “capitano” il video dell’intervista fa il pieno di like. La grande maggioranza di questi applausi, però, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non sgorga sorgiva al declamare promesse, o su quota cento.

 

Piuttosto sono applausi che scattano pavloviani su parole cariche emotivamente, su spacconate e battute di spirito (è la performance, stupido!). Il verbo che strappa più applausi – ben tre volte – è “morire”, declinato in vari modi. Ma non sono meno efficaci espressioni maschie e iperboli roboanti: “ufficio miracoli”; “sacrosanto diritto”; “galera”; “spacciatori”; “sequestro di persona”; “difendere i confini”; “traffico di essere umani”; “armi e droga”; “schiena rotta”; “agenti al freddo” che “si prendono le bottigliate”. Anche le spacconate risultano di indubbia efficacia (“Non me ne frega un accidente”; “Vado avanti come un treno”) e in un caso Salvini si prende un applauso anche solo alzando gli occhi al cielo.

 

"La gente non applaude quello che dice, ma l’enfasi con cui lo dice”, disse una volta Luttazzi di Beppe Grillo. Stessa cosa si può dire oggi dei gialloverdi più amati dal piccolo schermo, divisi su tutto ma sovrapponibili nello stesso discorso retorico di natura emotiva e commerciale. È evidente che in studi televisivi con pubblico assente o silente, questa retorica cade spesso in un vuoto imbarazzato e molto più alto risulta il livello della discussione e del contraddittorio (vedi Gruber, Annunziata, ecc.). In arene eccitate, invece, anche quando il conduttore non si presta a suonare la grancassa del populismo, tutti gli sforzi risultano vani se sepolti sotto l’incessante battere delle mani. Non per una questione estetica andrebbero aboliti, dunque, ma per una questione che riguarda la democrazia: si capisce il business, ma dovrebbe rimanere pur sempre valido il fatto che la salute di una società dipende dalla qualità dell’informazione che riceve. E la libertà, ha insegnato Star Wars, non muore solo al ritmo del passo dell’oca, ma anche sotto scroscianti applausi.

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