Gerardo Greco (foto Imagoeconomica)

Prove tecniche di una tv non populista. Già, ma come si fa?

Salvatore Merlo

Una chiacchierata con Gerardo Greco, al suo primo giorno da direttore del Tg4

Roma. “Può darsi che alcune trasmissioni abbiano esagerato con i livori e i malumori, ma non puoi nemmeno negarli facendo dell’ottimismo di maniera. Perché dopo dieci anni di crisi l’Italia è diventata il paese del malumore. Questo è un fatto. E allora l’equilibrio sta nel non fermarsi alla rappresentazione del malumore. La televisione dovrebbe offrire una spiegazione, e forse anche una via d’uscita”. E Gerardo Greco, l’ex conduttore di ‘Agorà’, ex corrispondente dagli Stati Uniti, ex direttore del Gr1, una vita in Rai, – “entrai nel 1992 dopo la scuola di Perugia assieme a Monica Maggioni e Giovanni Floris” – è al suo primo giorno di scuola da nuovo direttore del Tg4, il telegiornale che fu per quasi vent’anni del mitologico Emilio Fede, poi di Giovanni Toti (oggi presidente della Liguria), e infine di Mario Giordano, un giornalista di cui Matteo Salvini dice di avere la massima considerazione. “Dal 13 settembre condurrò anche una trasmissione”, dice Greco. “S’intitolerà ‘Viva l’Italia’. Non immagino un talk-show. Ma un reality”. E spiega: “Vorrei costringere la politica a parlare dei fatti, a stare sui fatti, anche quelli più nudi. E vorrei evitare le piazze, ma raccontare di singoli uomini e donne. Per questo dico reality”.

 

E certo deve ancora prendere le misure a ogni cosa, il neo direttore Greco: stanze, corridoi, facce, redazione, segretarie, persino gli uomini della sicurezza che per poco non gli chiedono i documenti prima di farlo entrare: “Scusi lei…?”. Negli studi romani di Mediaset, al Palatino, nel bellissimo compound televisivo, proprio accanto a Villa Celimontana, un paradiso, lui ancora non ha nemmeno un ufficio suo, ma si muove con l’aria indaffarata e compresa, carica e incerta, di uno che è stato chiamato in qualche modo a compiere una rivoluzione editoriale. E infatti, ogni tanto, di fronte a certe domande, mette su uno sguardo ironico che invita alla comprensione, come dire: lo so che non è una cosa facile. Ecco, appunto, ma cosa sarà Rete4? Col suo primo direttore non berlusconiano, defamiliarizzato, uno che non viene dalla nidiata, un giornalista probabilmente di sinistra – “io mi definisco moderato”, dice lui, “ho votato anche a destra” – che ha costruito la sua cifra televisiva con una trasmissione, Agorà, che non aveva pubblico in studio, quindi niente applausi da incontro di boxe, e che tentava, non sempre riuscendoci, di sfuggire alle urla da pollaio, “una cosa che trovo inutile e insopportabile”.

 

A marzo dell’anno scorso, ancora prima delle elezioni che avrebbero consegnato Luigi Di Maio e Matteo Salvini al governo, su queste stesse pagine del Foglio, il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, che ha il pregio della franchezza anche quando parla di casa sua e delle cose sue, diceva che “in effetti stiamo esagerando”. E si riferiva, il più vecchio tra gli amici del Cavaliere, alla sensazione che lo zapping sulle reti Mediaset si ricomponesse in un formicolante palcoscenico horror: il giornalista che parla sempre e comunque a nome della gente, quello che caccia il microfono tra i denti del disgraziato che gli è capitato sotto tiro, il collegamento con la piazza vociante, gli strepiti, la bava alla bocca, la casta… “Stiamo portando i vasi a Samo”, cioè stiamo facendo una cosa inutile, diceva Confalonieri. Poi sono arrivate anche le elezioni. E le hanno vinte quelli che urlavano più forte. Così, adesso, atterra a Mediaset Gerardo Greco. Come un marziano. Ed è impossibile non pensare che ci sia una logica di causa ed effetto. “Sono due anni che ne parliamo, che incontro Mauro Crippa e Andrea Delogu”, i vertici dell’informazione Mediaset. “Ma tutto è diventato vero solo quattro mesi fa”. E adesso? “Adesso sono cavoli”, ride.

 

Rete 4 ha un pubblico anziano, e tendenzialmente di destra, gli si dice. E allora Greco, con diplomazia: “E’ un pubblico attento, che si fa domande. Ed è molto simile a quello di Rai1, cioè tradizionale, generalista. Sono diffusi dei preconcetti sbagliati sul pubblico di Rete 4”.

 

Nei corridoi dell’azienda, nelle redazioni dei telegiornali, c’è molta curiosità per quello che sta accadendo a Rete 4. Alcuni giornalisti già chiamano il canale “La4”, facendo il verso a La7, perché la rete che trasmetteva le telenovelas venezuelane, il canale di “Micaela” e di “Milagros”, pare possa trasformarsi nella rete informativa, politica, della galassia Mediaset. “Il mio intento, se ci riuscirò, è di prendere per mano un pubblico che dopo dieci anni di crisi è ovviamente spaventato, per offrirgli delle spiegazioni, dei percorsi logici e non delle chiavi di lettura che poi diventano ideologia. Le chiavi di lettura non aiutano a ragionare. Trovo estremamente semplicistico, persino pericoloso, il derby sistema-antisistema, che sta diventando la narrazione comune di ciò che accade nel nostro paese. Sono stato in vacanza in Trentino Alto-Adige, e mi è capitato di parlare con delle persone che esprimevano un fortissimo fastidio per la politica e per i suoi simboli. E questo malgrado adesso, al governo, ci siano i Cinque stelle, cioè quelli che secondo la semplificazione dovrebbero essere gli antisistema. Penso che questa retorica alla fine non costruisca nulla di buono. E’ un’arma che sfugge dalle mani di chi la brandisce”, e potrebbe anche finire con lo sparare contro gli stessi Cinque stelle, nel momento esatto in cui loro si fanno sistema, regime, e governo del paese.

 

E allora Greco dice di voler uscire dalla piazza urlante, dall’immagine stereotipica dei residenti arrabbiati del Giambellino che si radunano davanti ai caseggiati per manifestare il loro malessere di fronte a una telecamera, o degli operai in cassa integrazione che fischiano davanti a un cancello chiuso. Ma come si fa? “Devi illuminare il singolo”, dice. “Devi entrare dentro la storia personale. Devi prendere le persone, una alla volta, perché nella massa non troverai mai il pensiero. Nella folla il pensiero si annacqua, si perde dietro a una facile arma di mobilitazione. Cercherò di farlo come posso, anche nella trasmissione che condurrò”.

 

E come sarà questa trasmissione? “Lo studio sarà un ambiente urbano, la ricostruzione di una strada, perché è quello che vogliamo raccontare: partire dalle storie. Voglio partire dalle notizie, per portare la politica dentro i fatti. E vorrei anche riuscire a fare una trasmissione che procede seguendo uno schema narrativo. Quasi una sceneggiatura, anche con delle ricostruzioni ‘fiction’, che accompagnino questo racconto”. Ci sono stati tentativi di racconto politico non urlato, ma con esiti fallimentari. “Il problema è che il racconto non dev’essere disincarnato, lunare. Credo che in Italia ci siano buone ragioni per essere emotivi, per macerarsi nel rancore. E questo non si può far finta di non vederlo. Per cinquant’anni i genitori hanno nutrito ambizioni sempre in crescita nei confronti del futuro dei loro figli. E questo schema adesso è saltato. Quindi arrivano le paure, le incertezze. Solo che il grande racconto emotivo-colletivo è un’insidia, ti stringe sempre più in una spirale cupa, ti fa perdere di vista la via del ritorno. E allora, se ci riusciremo, noi dovremo tentare l’operazione di un racconto vero, quindi anche sporco, che raccoglie il malumore, ma che non sia un lamento fine a se stesso”.

 

Quando vogliono un po’ insultarlo, dicono che Greco è renziano. “Sono un giornalista. Punto. Sono stato nominato direttore del Gr da Mario Orfeo. E credo sia sufficiente aver guardato, o ascoltato, le mie trasmissioni per sapere che in Rai ho sempre rispettato principi di professionalità. Salvini, ad ‘Agorà’, era un ospite fisso. Io sono tornato a Roma, nel 2013, dopo dodici anni negli Stati Uniti, per condurre ‘Agorà’… e praticamente non conoscevo nessuno dei politici italiani”.

 

Cos’è Renzi oggi? “Un’ascesa rapidissima, e un’altrettanto rapida caduta. Ho letto in questi giorni che lui stesso si è definito ‘antipatico’. Penso che il fattore umano e caratteriale conti molto nella politica contemporanea. Basta pensare a Salvini. Fa politica da una vita, eppure fatichi a considerarlo un membro dell’élite”.

E’ un comunicatore notevolissimo. “Nasce giornalista. Lui tutte le cose che dice, secondo me, le ha introiettate nei tanti anni in cui da direttore di Radio Padania rispondeva alle telefonate del pubblico. Ha sollevato le antenne meglio degli altri. Come Berlusconi trent’anni fa. Fino a quattro o cinque anni fa, di fronte allo spaventoso fenomeno dell’immigrazione, nessuno aveva capito quanto sarebbe diventato centrale nell’interesse pubblico. Salvini l’aveva capito prima. La sinistra troppo tardi. Marco Minniti arriva soltanto nel 2017”.

 

Anche Renzi aveva una narrazione molto efficace. “Sì, ma come dicevo, si è sgretolata su aspetti caratteriali. Non so come finirà a Salvini. Vedremo”. E Di Maio? “E’ più freddo. Calcolatore. Se vuoi meno istintivo, ed è cresciuto velocemente. Ma se Salvini ha una straordinaria energia e capacità di sintonizzarsi con gli umori profondi, Di Maio ha fatto per cinque anni il vicepresidente della Camera e conosce bene l’Italia istituzionale. E questo è un vantaggio”.

 

Salvini è uno che nelle interviste si fa fare tutte le domande, e non si spaventa. Con Di Maio si entra invece in un ginepraio di regole d’ingaggio, di divieti. Lui un’intervista senza negoziati preventivi non la fa. “Salvini è più corazzato”, dice Greco. Mettiamola così: può sembrare paradossale, ma Salvini è più liberale di Di Maio. Non ha bisogno di Rocco Casalino. “Diciamo che Di Maio è più protetto”. O forse è sotto tutela. Chissà. Chi vorresti come ospite? “Papa Francesco”, risponde, guardando in alto, come in un sogno.

 

Qual è la prima differenza che hai notato tra la Rai e Mediaset? “Che Mediaset è più razionale. C’è un’agenzia con 240 giornalisti che fornisce i servizi alle testate. E’ quello che la Rai avrebbe dovuto fare cinque anni fa, quando lo propose Gubitosi, con l’idea delle newsroom. La Rai ha problemi giganteschi, ha cambiato quattro direttori generali in cinque anni. Sono troppi in un posto in cui ci metti almeno un anno a capire come funziona. Il direttore della Bbc è lì da circa dodici anni. Anche la direttrice della tv pubblica americana, la Pbs, è lì dal 2004. Ce la farà Fabrizio Salini adesso? Chi lo sa. Quando i vertici cambiano troppo rapidamente, finisce che si rafforza una componente burocratico-ministeriale interna. Una specie di blocco di pietra, che regge la struttura, ma poi è anche inscalfibile, immodificabile e strapotente”.

 

La Rai sovranista cos’è? “Veramente al momento non la vedo. Vedo la solita Rai, di governo”. E della vicenda Foa che pensi? “Penso che ci sia stata mancanza di comunicazione all’interno del centrodestra, dove i rapporti sono così fragili che basta un’incomprensione anche banale per creare un incidente serio”. Non pensi che Salvini stia tentando di ridurre Berlusconi all’irrilevanza? “Credo che da parte di Salvini ci sia un forte riconoscimento nei confronti di Berlusconi. Salvini lo considera il padre del centrodestra. Forse non il leader, ma il padre sì”. Però questo è nella storia, diciamo. E a te Berlusconi che ha detto quando sei arrivato a Rete 4? “Braccia apertissime”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.