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I contenuti in Rai contano meno della politica. Aldo Grasso a tutto campo

Annalisa Chirico

Un'industria senza cultura, rischi del governo gialloverde e l’importanza di Fiorello

Roma. Per Aldo Grasso, critico televisivo d’Italia, la prima domanda è tranchant: c’è ancora vita a viale Mazzini? “No”, la stringata risposta. Dal suo buen retiro estivo a Dogliani, nel cuore delle Langhe, Grasso guarda la tv, con un occhio alla vigna. “M’impongo la ricetta delle medicine: quel tanto che basta”. Ai piani alti della Rai prosegue il braccio di ferro per la designazione del presidente, preludio alla pioggia di nomine in epoca gialloverde. Tutti attendono di sapere chi occuperà la cabina di comando di tg e reti. Nessuno si domanda per fare cosa.

 

  

Aldo Grasso (foto LaPresse)   

 

“Lo slogan che vorrebbe i partiti fuori dalla Rai è la palla che i partiti di opposizione si passano da sempre – dichiara il professor Grasso – Michele Anzaldi s’indigna per la lottizzazione quando il Pd, fino a ieri, ha usato la tv pubblica come carne da macello, al pari degli altri. O si cambia la Rai oppure la si accetta com’è, con il suo azionista pubblico”. Intanto i vertici editoriali vengono designati nella totale assenza di un piano editoriale. “E’ qualcosa d’inaudito, senza precedenti in Europa. La selezione pubblica dei curricula è stata presto accantonata per scegliere come direttore generale un professionista, Fabrizio Salini, che ha sempre operato in territori distanti rispetto alla tv generalista”.

 

La commissione parlamentare di Vigilanza ha spedito una lettera per far sapere che, in assenza di un presidente, il cda deve limitarsi all’ordinaria amministrazione. “E’ un organismo parasovietico, da abolire all’istante”. Le opinioni personali di Marcello Foa su Putin e Crimea rilevano ai fini del ruolo Rai? “Sono del tutto irrilevanti. Che importa che pensa Foa della Russia? E poi, con l’entrata in vigore della riforma voluta dal governo Renzi, consiglieri e presidente non contano”. Fuori i partiti dalla Rai, lei diceva, è uno slogan démodé. “Lo riformulerei così: fuori la Rai dalla Rai. La tv pubblica, con quindici reti, è una mostruosità. Basterebbero una rete generalista e un paio di reti educational. La funzione del servizio pubblico va riscritta ovunque, non solo in Italia. Se la magnifica Bbc non riesce a impedire la vittoria della Brexit, significa che anch’essa ha esaurito la propria funzione. Il servizio pubblico, per com’è oggi, non ha più senso di esistere. La Rai ha fallito in almeno due occasioni: ha optato per il digitale terrestre, vale a dire per la più obsoleta delle tecnologie moderne, in una scelta di comodo, condivisa con Mediaset, per paura della concorrenza; e poi ha mancato la sfida europea: in un’Unione spesso accusata di perseguire intenti unicamente monetari, i servizi pubblici di tutti i paesi membri dovrebbero operare sul terreno del simbolico per ispirare lo spirito di appartenenza comunitaria”.

 

Si ripete come un mantra che la Rai è la prima azienda culturale del paese. “Che sia un’industria non c’è dubbio. Taglierei l’aggettivo culturale. Esclusa Rai Storia, quali sono i prodotti di pregio culturale? All’università, quando uno studente impreparato vuole darsi un tono, afferma di non perdersi una puntata di Piero Angela. L’ideatore di ‘Quark’ è il luogo comune della televisione italiana. La verità è che quest’anno la Rai ha prodotto due soli programmi culturali: il viaggio di Edoardo Camurri nella provincia italiana e l’approfondimento storiografico di Paolo Mieli. Se Fiorello approderà in autunno, il suo sarà un programma culturale”.

 

Al Foglio il vicepremier Matteo Salvini ha tratteggiato la Rai dei suoi desideri: o canone o pubblicità, troppi canali, una rete totalmente privata. “Una Rai ridotta a tre reti può vivere di solo canone. Lo sostengo da almeno dieci anni, vale a dire da prima che Urbano Cairo diventasse il proprietario del Corriere della Sera”. Proprio Cairo, patron di La7, lamenta la concorrenza sleale ad opera della Rai che si alimenta a canone e pubblicità. “La battaglia giusta, a mio parere, è quella sul servizio pubblico. Fa più servizio pubblico Enrico Mentana o un contenitore Rai?”. Il tetto agli stipendi, in vigore per dirigenti e giornalisti, disincentiva passaggi di peso nell’emittente pubblica. “Un vero manager devi pagarlo per quanto vale, sennò recluti soltanto professionalità di serie b che non trovano posto altrove”.

 

Negli auspici di Salvini, la nuova Rai dovrebbe potenziare le testate regionali. “Sono in fermo disaccordo. Le tv regionali sono un serbatoio per piazzare uomini, a uso e consumo dei politici locali. Se la Rai le eliminasse tutte, ne trarrebbe un guadagno straordinario. E poi che cos’è questa battaglia di retroguardia all’insegna del localismo? Grazie al satellite abbiamo allargato i nostri orizzonti, ci siamo accorti di essere un paese bello ma piccolo. Esiste un mondo lì fuori”.

 

Nella partita dell’informazione si preannuncia un catfight tra Mediaset e La7. Il Biscione ha promosso e arruolato pezzi da novanta, da Barbara Palombelli a Gerardo Greco passando per Nicola Porro, con una short-list di opinionisti in esclusiva. “Sarà una sfida interessante. Rete4 deve cambiare target: perdere il pubblico di riferimento è facilissimo, conquistarlo è un’impresa titanica”. Con una formula erudita e laconica, il presidente Fedele Confalonieri ha annunciato la svolta: “Stiamo portando i vasi a Samo”. “Se ne sono accorti tardi – replica Grasso – Con sei mesi di anticipo, avevo scritto che la televisione di pancia dei vari Del Debbio e Belpietro portava acqua al populismo e alla voglia di trasformare la tv in una sorta di vindice rancorosa, con il coltello tra i denti”.

 

L’iperpresenzialismo di Salvini e le ospitate grilline prive di contraddittorio non sono stati un’esclusiva Mediaset. “La7 però ha avuto il coraggio di chiudere la Gabbia: il programma dei grillini prima che i grillini si dessero un programma”. Gianluigi Paragone oggi è un senatore pentastellato mentre Dino Giarrusso, che nei panni di Iena ha montato il processo mediatico contro Fausto Brizzi, è stato candidato dal M5s senza essere eletto. “Se fosse dipeso da me, le Iene le avrei chiuse all’indomani del caso Stamina: portano avanti l’ideologia della controinformazione”.

 

Lei ha scritto che nell’equivoco antropologico dell’uno vale uno i giornalisti vogliono spettacolarizzarsi e i volti dello spettacolo mirano a nobilitarsi con l’informazione. “Tutte le figure d mediazione sono state delegittimate. L’unica moneta da spendere deve essere quella della competenza. Basta con i contenitori frivoli che vogliono darsi un tocco giornalistico e autorevole”. Per i Mondiali di calcio Mediaset ha sbaragliato: per la prima volta in chiaro, boom di ascolti. “La Rai ha commesso un clamoroso errore credendo che senza l’Italia in campo sarebbe mancato il pubblico. Mediaset ha schierato una squadra di giornalisti capaci dimostrando che Rai sport è un reperto archeologico”. Con il campionato alle porte e l’ingresso di un nuovo player, Dazn, lo spettatore rischia di restare con il telecomando in mano? “Confesso che anch’io sono spaesato, non ho ancora capito come farò a seguire le partite del Torino. Purtroppo il calcio italiano vive solo di proventi tv”.

 

S’intona ciclicamente l’epitaffio per talk politici e reality, poi gli uni e gli altri risorgono sotto nuove spoglie. “Nella storia dei mass media è sbagliato profetizzare la morte di un genere. Nulla si crea e nulla si distrugge. I reality hanno vissuto una crisi di saturazione. Adesso Canale5 è diventato un canale monogenere: offre reality no-stop. Io li guardo, non ho prevenzione: quelli italiani difettano d’ironia e leggerezza. Ci vorrebbe sempre un Taricone, e una conduzione affidata a un’intellettuale, simpatica o meno, non importa. Soltanto così c’è la possibilità di sfaccettare anziché limitarsi ai soliti periferici, agli esaltati della passeggiata in via del Corso”.

 

Anche i talk resistono. “A un certo punto ce n’era uno ogni sera, un po’ troppo. Il talk è un genere in sé bellissimo ma in Italia è spesso usato al ribasso: tende a rafforzare le idee di partenza, non spiazza né stupisce”. Un tempo la Rai3 di Angelo Guglielmi testava volti e idee nuove. “Oggi la sperimentazione è una prerogativa delle piccole case di produzione. Rai e Mediaset preferiscono andare su prodotti sicuri”. La Rai rilancia con Portobello condotto da Antonella Clerici. “Se ci fosse una legge per vietare simili ripescaggi, la voterei. Come per il Rischiatutto di Fabio Fazio. Tali operazioni rappresentano uno sgarbo nei confronti del conduttore originario. Un atto vieppiù grave se si considera la parabola drammatica di Enzo Tortora. Il mito di Portobello non doveva essere scalfito. Le racconto un episodio”.

 

La ascolto. “Quando mi hanno chiesto di individuare i tre programmi con maggiore impatto, io ho scelto quelli non a me più graditi ma con la platea più ampia di spettatori: Lascia o raddoppia, Portobello e la prima edizione del Gf”. Cairo sostiene che il prodotto va concepito con la testa di chi compra, non con quella dei padroni. “Se tutte le emittenti facessero i programmi come li vuole il pubblico, avremmo un programma identico su ogni rete. In realtà, la tv funziona sulla diversità. Senza una personalità e un marchio riconoscibile, cadi nell’indistinto. Talvolta dimentichiamo che facciamo comunicazione di massa: dobbiamo parlare al maggior numero di persone, non solo a noi stessi”.