Sul set di Suburra 2, dove "il male è più interessante"

I nuovi episodi usciranno nei primi mesi del 2019. In questa stagione tutti cambiano, nessuno è più lo stesso ma è la politica la cosa più importante. È una storia di potere, di intrallazzi, di interazioni

Gianmaria Tammaro

“Ma ‘o sai ‘ndo stamo annando? Pensa che se nun c’avevo er navigatore ce perdevamo”. Il taxi svolta a destra ed esce dal Grande Raccordo, imbocca una stradina piccola, costeggiata da erba altissima e asfaltata alla bell’e meglio. “Dice che nun ce stanno buche”, fa il tassista. “Alimortacci-”

  

Via Francesco Somaini, zona sud-est di Roma, Tor Vergata. Sull’orizzonte, enorme e bianchissima, la Vela di Calatrava. È qui che per qualche giorno – “ci siamo già stati”, dice uno dei runner, “per altre riprese” – fa base il set di “Suburra” 2, la serie tv di Netflix prodotta da Cattleya con Rai Fiction, la prima in Italia.

  

Dopo un tappeto di ghiaia bianca, c’è il cemento più grigio; e più avanti, tra i pilastri fatiscenti, si gira. Aureliano, interpretato da Alessandro Borghi, e Spadino, Giacomo Ferrara cioè, da una parte. Dall’altra, tipo western, immobili e bravissimi a giocare solo con gli sguardi e le espressioni, la Sara Monaschi di Claudia Gerini e l’Amedeo Cinaglia di Filippo Nigro.

  

Si parlano, si guardano, si studiano. La storia riprende tre mesi dopo i fatti della prima stagione (quindi omicidi, inseguimenti, scazzottate, tutti contro tutti), e si concentra in quindici giorni. Non più dieci episodi, ma otto. Due registi, Andrea Moliaoli e Piero Messina. E meno sceneggiatori (ora se ne contano appena quattro). Tutto sembra più veloce e immediato.

  

Si gira una parte importante del settimo episodio. Cinaglia e Monaschi chiedono ai due fetenti di Roma di fare qualcosa. “Qualcosa di grosso”. “Ammazza’ qualcuno?”, chiede Aureliano. “Famo a caso o ce lo dici tu?” La Vela di Calatrava, in “Suburra”, non esiste. In parte perché la storia è ambientata nel 2008, a pochi giorni dall’elezione del sindaco. E in parte perché l’elemento di finzione, nella serie Netflix, è un elemento importante. Fondamentale. Questo, dice Andrea Moliali, resta intrattenimento. E se si parla di male, è perché è l’elemento che – drammaturgicamente – è più interessante.

  

“Se c’è una cosa che ho imparato, venendo dalla periferia, è che qui le persone sono sé stesse: quello che vivono le cambia profondamente”, spiega Alessandro Borghi. In questa stagione non c’è più la lotta parricida dei figli che vogliono trovare il loro posto nel mondo. “Anche perché – suggerisce Giacomo Ferrara – i padri, o chi per loro, non ci sono più”. Ora tutto è diverso. Lele, che all’inizio era insieme a Spadino e a Numero8, è diventato un poliziotto. “Ed è un vice ispettore, una carica importante, segno che c’è qualcuno dietro la sua nomina: perché non basta un esame”, suggerisce Eduardo Valdarnini che lo interpreta.

  

Quel qualcuno di cui parla, molto probabilmente, è Samurai (Francesco Acquaroli): la piovra, l’ex-banda della Magliana, l’uomo che tiene le redini del mondo di sopra, di sotto e di mezzo. In questa stagione, dicono un po’ tutti, è la politica la cosa più importante. Il tema nevralgico. Gli equilibri pendono tutti in suo favore. E così il Cinaglia di Nigro, politico prima per passione e poi per opportunità, si ritrova in una posizione inaspettata, e la Monaschi della Gerini, ora libera, divorziata, lontana dal Vaticano, ha modo di far fruttare il suo business. “Ha una ONLUS”, dice l’attrice. “Gestisce il traffico di immigrati. Ha capito, alla fine della prima stagione, che è questo il futuro, la cosa più redditizia”.

  

Tutti cambiano, nessuno è più lo stesso. Alcuni, però, come Spadino, accettano la loro natura. Anzi, la loro doppia natura: zingaro e omosessuale. “E tutto riparte da lì”, dice Giacomo Ferrara. “C’è confusione tra i vari piani, spesso non si capisce cosa influenzi cosa”, spiega Filippo Nigro. “Sembra che non ci sia nessuna differenza, tra allora e adesso”.

    

“Suburra” 2 – che uscirà nel 2019, molto probabilmente tra gennaio e inizio febbraio – non racconta, né vuole raccontare, l’attualità. È una storia di potere, di intrallazzi, di interazioni. Dal punto di vista della scrittura, è il massimo: perché un attimo prima tutti sono nemici e un attimo dopo tutti sono improvvisamente alleati. Aspirazione shakespeariana. Come nella miglior tragedia. Non è l’erede di “Romanzo Criminale”, né di “Gomorra”. Attinge a quell’immaginario, a quell’idea, a quel linguaggio (attinge, ma non ripete o duplica perfettamente); si inserisce nello stesso solco. Ma ha delle differenze importanti. Produttive, prima di tutto.

    

Netflix, che nel mondo conta 125 milioni di abbonati, ha bisogno che le sue serie siano internazionali e che anche se ambientate in un luogo specifico – e qui Roma è quanto di più specifico ci possa essere – riescano a toccare la sensibilità di tutti i suoi abbonati. In tutti e 190 paesi. “Suburra” parla dei criminali, degli zingari, dei politici corrotti di Roma, ma parla anche della natura umana, della sua tendenza al male e alla corruzione, di quanto sia più facile sbagliare che dire, o fare, la cosa giusta.

   

Questo è solo il secondo atto di una storia più ampia. E quanto più ampia ce lo diranno i risultati, e se Netflix la rinnoverà per una terza stagione. Roma è un non luogo, com’è – paradossalmente – un non luogo anche la Vela di Calatrava: “potete dire che siete qui, ma non che non ci sarà nella serie”. È un simbolo, e le serie tv, sui simboli, costruiscono la loro fortuna.