Andrea Salerno è nato a Roma il 3 dicembre del 1965, è giornalista e autore televisivo, direttore de La7 dal maggio scorso (LaPresse)

A tu per tu

La svolta di Salerno

Salvatore Merlo

La7 e le sette vite della televisione: a tu per tu con il nuovo direttore. Che cosa pensa della Rai, di Mediaset, di Cairo, dei grillini al governo. L’attesa per l’arrivo di Guzzanti e Moretti. Basta con la twitter-tivù

Piccolo, asciutto, con un’intelligenza tesa che gli traspare dagli occhi tondi, quasi di fumetto: “Non avrei mai immaginato che mi chiamasse a dirigere La7”, dice. E perché? “Perché evidentemente siamo diversi”, risponde. E il soggetto è Urbano Cairo, l’editore di La7, del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, dei settimanali di gossip a un euro, Dipiù e Diva, ForMen e Giallo, il proprietario del Torino, il self-made man cresciuto in Publitalia, a fianco del Cavaliere. “E’ un uomo rapido, che si ricorda tutto, che richiede grande attenzione. E’ un editore puro, senza conflitti d’interesse. Ed è una persona appassionata”. Ma è di destra. Carlo De Benedetti ha detto di lui che è bravissimo, con un solo difetto: è antropologicamente berlusconiano. E tu, invece, sei un uomo di sinistra: Rai Tre e il Manifesto, la Fandango e Domenico Procacci. “Passare da Domenico Procacci a Urbano Cairo richiede un certo sforzo”, dice con un raro sorriso. “Due persone di talento, ma diverse. Due mondi opposti per formazione, mestiere. Imparagonabili. Ma entrambi liberi, di testa. Così quando Cairo mi ha proposto di lavorare con lui mi ha stupito, gli ho detto: ‘Ma sei sicuro?’”.

 

E Andrea Salerno, cinquantadue anni, è stato, tra le altre cose, ideatore e autore delle trasmissioni Rai più famose di Corrado Guzzanti, dell’“Ottavo nano” e del “Caso Scafroglia”, di “Parla con me” con Serena Dandini, e poi di “Gazebo”. La7 era la tivù di Grillo, gli si dice. E tu la stai cambiando. La porti a sinistra. “Non credo sia mai stata la tv di Grillo”, risponde con una spigolosità gentile, una specie di sfumatura guardinga, che un po’ contrasta con la sua biografia d’autore satirico, e lascia pensare che nel lavoro lui difenda la sua serietà con lo scherzo. “Quando c’era Berlusconi, tutto quello che lo riguardava faceva ascolto”, spiega. “Lui, i suoi uomini, e anche i suoi violentissimi oppositori. Dunque stava molto in tivù. Lo volevano. Ed è stato così anche per Renzi, all’inizio. Chi fa tv ragiona televisivamente. I programmi sono pensati da autori che stanno attenti allo share”. E insomma il grillismo fa (o faceva) share, dice Salerno. “Ma io La7 non l’ho mai vista come una tivù grillina”. Adesso però arrivano Guzzanti, Nanni Moretti… “Guzzanti è un genio. Non è di destra né di sinistra. E Moretti è un grande regista italiano”. Gli farai introdurre un ciclo di suoi film che manderete in onda. Dino Risi una volta disse di Moretti: “Adesso però levati di mezzo, e lasciami guardare il film”. E a questo punto Salerno risponde con uno sguardo di cemento, “quella di Risi era una battuta”, dice. O forse era un giudizio definitivo. “Guarda, non credo di spostare La7 a sinistra. E poi la sinistra non c’è più. Oggi la dialettica è sistema/antisistema. E comunque quella che vorrei fare è una tivù di persone capaci, talenti. La voglio rafforzare, conservando il suo Dna di carattere informativo. L’informazione la puoi fare in tanti modi, anche con un dialogo teatrale di Marco Paolini, o con la satira di Guzzanti. L’Italia la puoi raccontare anche con una docu-fiction, non solo con il talk-show. Ho un mandato chiaro da Cairo”. E quale? “Prendere quelli bravi. Ne arriveranno ancora”. Avete preso Massimo Giletti. “Giletti è uno di quelli bravi. Nel 1991 entrai nello studio di Minoli, a ‘Mixer’, e mi ricordo che c’era Giletti che accoglieva gli ospiti in felpa”. Giletti però non sembra il tuo genere: l’ha assunto Cairo? “L’abbiamo voluto insieme”.

 

"Paragone? Cambiare i programmi non è censura, è libertà". Giletti l'ha assunto Cairo? "L'abbiamo assunto insieme"

Il sole taglia i sampietrini, e via del Teatro Valle, alle spalle del Senato, sfolgorante di luce, somiglia a un cimitero, piena com’è di persone che paiono abbattute dal pugno di un vento caldo che sembra sputato fuori da un enorme phon.

 

In un angolo, a un tavolo nella grande sala centrale d’un ristorante frequentato da politici e senatori – c’è anche un anziano ex presidente del Consiglio, dalla cotonatura un po’ patetica – Andrea Salerno, da poco più di un mese diventato direttore di La7, si rizza in alto come al suono di una grossa e sonora sciocchezza quando gli si dice che Massimo Giletti, il suo ultimo acquisto, non sembra essere, come dicono gli inglesi, precisamente la sua tazza di té. E insomma, il notissimo presentatore che ha da poco lasciato la Rai, non sembra proprio incarnare quella ‘certa idea di tivù’ che qualche settimana fa Salerno aveva citato in una conferenza stampa, parafrasando Gobetti (ed Ezio Mauro che, per spiegare cos’era Repubblica, diceva “è una certa idea dell’Italia”). “I gusti sono una cosa, le capacità un’altra”, risponde lui, mentre sgrana gli occhi come un’attrice del muto. “A qualcuno Giletti può non piacere, ma Giletti è un fuoriclasse. Ci possono essere programmi che non ti piacciono, ma che sono fatti bene”.

 

E quali programmi non ti piacciono, ma sono fatti bene? “‘C’è posta per te’. E’ fatto benissimo. E non mi piace. Come pure ‘Temptation island’”. E il pomeriggio morbosetto della Rai e di Mediaset ti piace? Barbara d’Urso, Paola Perego… “La domanda che ti devi fare sempre è: chi c’è a casa a quell’ora a guardare la tivù?”. Dei mostri? Degli abbrutiti? I neanderthal? E qui Salerno sogghigna con lo sguardo. “Guarda, da noi non sarà così”. E come sarà? “Proveremo a fare un racconto. Alle 19 e 30 partirà una striscia di Makkox: la rappresentazione del mondo che fa Instagram. E questo darà il ‘la’ al Tg di Enrico Mentana. Poi arriverà Lilli Gruber, cioè l’approfondimento, a seguire ci sarà la satira di Guzzanti, e poi si parte con il prime time: Floris, Formigli, Zoro…”. E Giletti, appunto.

 

 "Gli agenti diventano forti quando non sai fare televisione, e non sai riconoscere il talento. Quindi te lo compri già fatto"

Ma ‘una certa idea di tv’, esattamente, che significa? “Quella frase per me vuol dire una tivù civile. Civile nel linguaggio”. In Italia la lingua è andata a male, sui social, in politica, nella televisione, persino sui giornali: turpiloquio, violenza, urla… “Io ho avuto la fortuna di poter frequentare dei maestri. Sandro Curzi, al Tg3. Luigi Pintor, al Manifesto. Se la lingua va a male, si guasta, è anche perché è andata a male la classe dirigente del paese”. E al Manifesto che facevi? “L’apprendista. Era il 1981, e tagliavo le agenzie. Arrivavano a rullo, sulla carta. Andavano tagliate con un righello, selezionate, e infilate dentro delle vaschette. Era un lavoro non banale. Perché dovevi capire cosa era importante. Cosa aveva priorità. Al Manifesto con me c’erano Corrado Formigli e Carlo Bonini. Poi nel ‘93 andai a Reset, e mi ritrovai con gente del calibro di Vittorio Foa, persone che non derogavano mai alla civiltà dei rapporti, alla grazia civile, pur nella durezza dello scontro. Tu prima citavi Dino Risi su Moretti. Ricordo perfettamente una trasmissione del ‘76, condotta da Alberto Arbasino, con ospiti Mario Monicelli e Nanni Moretti, giovanissimo, messi l’uno di fronte all’altro. In aperta polemica”. Era il cosiddetto cinema d’autore che si preparava ad ammazzare l’industria cinematografica italiana, cioè la commedia. “Quello tra Monicelli e Moretti fu uno scontro formidabile, e civilissimo. Tutto fondato sulla qualità delle persone che si trovavano in quello studio della Rai. Gli ospiti, il conduttore, il pubblico che faceva le domande”. Era un altro mondo. “Si fumava persino in studio, davanti alle telecamere”.

 

Oggi la grammatica dominante è il vaffa. “E io mi chiedo sempre se a determinare questo slittamento siano stati i mezzi dello scontro, cioè i social, internet, o se è invece la qualità delle persone a essersi degradata”. E pensi sia la qualità delle persone… “Diciamo che quelli bravi, civili senza essere pettinati, potranno venire da noi a divertirsi su La7, che è una rete di servizio pubblico commerciale, o una tivù commerciale di servizio pubblico”. Che vuol dire? “Pensa a come La7 ha costretto la Rai a inseguirla sulle dirette. Non è vero che avere una rete all-news copre sempre la notizia. Se succede un fatto enorme e drammatico, come la strage del Bataclan, e tu lo lasci su Rai-news, non fai percepire al pubblico l’importanza di quello che sta accadendo. La7 è un canale che dovrà sempre di più stare nel presente, raccontare quello che succede. Seria, senza essere seriosa. E se ci pensi oggi non può che che essere questo il tono e il linguaggio della tivù”.

 

La serietà? “Credibilità e serietà del linguaggio. La televisione oggi è diventata quasi come Micromega”. E Salerno pronuncia queste parole con un sorriso stavolta aperto, con una limpida sfumatura ironica. “Se ti guardi intorno, se guardi internet è così. Confronta le due cose. Pensavamo che la tivù fosse l’effimero. E invece sono arrivati Twitter e Facebook”. Una televisione civile. Va bene. Tuttavia Lilli Gruber, con tutta la sua pulizia verbale, con la sua eleganza, ha legittimato, con un tocco attraente di civiltà, gente che di solito fa pernacchie alla Bombolo su piccoli giornali strillati e sicari. “Gruber ospita tutti”, esclama Salerno, lampeggiando con un’occhiata ripida. “Da lei vanno Cazzullo, Severgnini, Sorgi… Otto e Mezzo è il talk politico più visto e autorevole in quella fascia d’orario”. Il che, da un certo punto di vista – sia detto senza offesa – potrebbe anche essere considerato un’aggravante. “Per alcuni osservatori La7 è berlusconiana, renziana, grillina… a seconda delle ospitate televisive. Quindi probabilmente è equilibrata”, conclude, mentre forse una piccola nube di offesa, per un attimo, gli passa davanti agli occhi.

 

Ma davvero avete “epurato” Gianluigi Paragone, e la sua trasmissione per così dire sbrigliata? Almeno così dice Luigi Di Maio. “Paragone continua a lavorare a La7. E poi, scusatemi, ma cambiare i programmi è lecito. Non è censura. E’ libertà”. E a questo punto, allora, non si può non domandare perché tutti quelli a cui si chiude una trasmissione, in Italia, dicono di essere epurati. Anche Giletti dice di essere stato “scomodo” in Rai. E’ un riflesso condizionato? “Le epurazioni in tv ci sono state”, risponde Salerno, facendosi avanti, e accendendo un po’ la voce.

 

“La stagione dell’edito bulgaro, quando vennero mandati via Biagi e Santoro c’è stata per davvero. E che gli anni di Berlusconi siano coincisi con una certa mancanza di libertà anche di esagerare in tivù, anche questo è un fatto”. Ma da allora in poi tutti si sentono Santoro e Biagi, e forse senza averne né i titoli né il talento. Anche questo è un fatto. La politica danneggia la Rai? “Mi pare evidente”. E quando dicono che Cairo potrebbe entrare in politica, che pensi? “Che non mi sembra interessato. Fa l’editore, con un impegno e una passione invidiabili”.

 

Grillo? "Non mi importa se sono 5 stelle, 3 stelle o due stelle. Vivo a Roma, e la città sta saltando. La situazione è grave"

A proposito di politica, e di censure. Quando lavorava in Rai, quasi dieci anni fa, Salerno fu persino sospeso, da Agostino Saccà. Ed ecco un viso, una frase, una bolla d’aria del passato che improvvisamente vengono a galla. “Fui sospeso per una battuta di Sabina Guzzanti su Giulio Tremonti, contenuta peraltro in uno spettacolo teatrale che aveva comprato l’azienda”, ricorda. “Dissero che io non avevo controllato. Paradossale”. Poi ci fu la chiusura di “Raiot”, nel 2003. “E nel 2007 me ne andai dalla Rai. Mi ero stancato. Nel 2003 ci aveva fatto causa Mediaset per una cifra enorme. Colossale. Milioni di euro. Lucia Annunziata era presidente. E ti giuro che non mi ricordo chi fosse l’amministratore delegato”. Era Flavio Cattaneo. “Quando andai via chiesi che cancellassero dal mio fascicolo aziendale tutte le sospensioni. Saccà mi aveva sospeso per tre giorni, per la storia della Guzzanti. E per la vicenda di ‘Raiot’ fui sospeso per dieci giorni (che è il massimo, oltre questo c’è solo il licenziamento). Non pretesi nulla. Niente soldi. Solo che eliminassero quella roba da casellario giudiziale. E Claudio Cappon lo fece”.

 

Che ti ricordi di quel periodo? “Che ci sono persone che da allora non sono più tornate in tivù…”. E qui Salerno fa come una pausa, cercando forse di mettere il maggiore spazio tra sé e le imprecazioni che gli rotolano dietro come botti. “Il punto di quella stagione fu la mancanza di voglia di osare. Venne spento tutto. Anche gli autori da quel momento in poi si sono adattati a un pensiero, un’attitudine, un indole”. Che indole? “Ovattata”.

 

Ma la televisione Rai è sempre stata ovattata, anzi pettinata. Lo diceva anche Carlo Freccero, mentre ci lavorava. “Nella stagione precedente ai primi anni duemila, la televisione osava. Era divertente. Sia in Rai sia in Fininvest”, risponde Salerno, in tono di aperta rivendicazione. “Il periodo 1992-93, per esempio, fu un periodo speciale per la tv: ‘Lupo solitario’, ‘Matrioske’… programmi di Antonio Ricci. Su cui io mi sono formato. Erano gli anni di Chiambretti, il ‘Divano in piazza’, che era dentro un programma di Barbato che andava in onda sulla Rai, la domenica. Si osava. E tutto questo è finito, passato per sempre”.

 

Colpa di Berlusconi? Non esageri? “Il senso critico in questi anni non è stato richiesto. Ci siamo abituati a stare nel brodo. Brodo televisivo. Non siamo più abituati alle differenze. Mi riferisco anche alla sperimentazione del linguaggio: se hai paura, ti appiattisci. Se gli autori hanno paura, perché pensano che ci sia qualcosa, oltre la linea editoriale, a condizionare il prodotto, allora tutto si stempera”.

 

Ma sul serio? Non ricordo di aver mai notato grande coraggio in Rai. “C’è stata la tv di Guglielmi. ‘Streghe’, con Amanda Lear. ‘Tele vacca’, di Benigni. L’Orlando furioso di Ronconi. Pensa allo sketch di Massimo Troisi, quello famosissimo, quello della Smorfia, sulla Madonna. Con Lello Arena che arriva e dice: ‘Annunciazione, annunciazione’. Oggi – credimi è così – non lo farebbero. Avrebbero paura di sembrare blasfemi. Nessuna osa”. Mediocrità? “Sì, certo. Il trionfo del politicamente corretto. Se fai satira sulle carote, oggi arrivano subito i difensori delle carote, che devono essere difese perché sono arancioni, fanno bene alla vista, e non puoi dire che sono un cibo noioso. E il risvolto è quello che vedi su internet sui social”. Che vuoi dire? “Che sono un anestetico. Accompagnano l’abbandono del senso critico”.

 

Sembri criticare i social con gli stessi argomenti con cui negli anni Settanta si criticava la tivù. “Ma no. E’ diverso. Pensa a questo: sui social ti basta scrivere una risposta al Papa o a Renzi, e ti senti soddisfatto. Credi di esserti fatto sentire. Sono un succedaneo della rivolta, del pensiero. Ma in realtà non aggregano niente. Prendi i grillini, che funzionano con internet. Non sono coesi. Sono tante ‘teste’, nessuna opinione fissa, tutto variabile”.

 

Quando Antonio Campo dall’Orto si è dimesso dall’incarico di amministratore delegato della Rai, cosa hai pensato? “Quando si apre una fase di innovazione uno spera sempre che vada in porto”. E non è stato così. “No. Succede che quando arrivi da marziano alla Rai, non hai il tempo per capirla. La Rai è una strana bestia, che limita le capacità di riuscita delle persone. Io un po’ lo vidi quando, ai tempi di Enzo Siciliano, mi trovai a fare il capo della segreteria del presidente. Mi è dispiaciuto quello che è successo a Campo dall’Orto. E alla fine non ho ben capito neanche perché si è dimesso”. Forse aveva preso troppo sul serio, alla lettera, il mandato di libertà con il quale era stato mandato alla Rai da Renzi. “Può darsi. Se guardo ai programmi, sono anche migliori rispetto a quelli di altre stagioni”.

 

E il nuovo dg della Rai, Mario Orfeo, come ti sembra? "Un cardinale. Simpatico. Un grande navigatore"

E per un attimo, parlando della Rai, Salerno è come l’estraneo che osserva in silenzio i fiumi di sofferenza locale da una sponda astratta. Poi, però, si fa improvvisamente meno indeterminato, quando gli si chiede: tu che avresti fatto, al posto di Campo dall’Orto? “Forse avrei riportato un programma informativo forte dopo il Tg1. In quello spazio che era di Enzo Biagi. E avrei provato a scardinare cose che invece sono rimaste”. Cosa? “Avrei stravolto Raiuno. Avrei preso il rischio di sperimentare sulla corazzata”. E il nuovo direttore generale, Mario Orfeo, come ti sembra? “Un cardinale. Simpatico. Un grande navigatore”. E’ giusto il tetto degli stipendi che è stato imposto all’azienda? “Non ha senso per gli artisti. Ma per i dirigenti, nel settore pubblico, sì”. Dicevano che Fabio Fazio, se non l’avessero pagato abbastanza, sarebbe venuto da voi. “Non potevamo dargli quella cifra”. Eppure il suo agente, Beppe Caschetto, stava lavorando a un cambio di rete.

 

A proposito: perché tutti dicono che gli agenti dei personaggi televisivi sono potentissimi? “Perché lo sono. Contano molto perché nelle reti non ci sono figure di prodotto, capaci di immaginare le cose. Una volta se tu andavi, in Rai, da Tantillo, da Fichera, da Voglino e pretendevi un aumento spropositato, quelli ti cambiavano. Inventavano i personaggi della tivù. Sapevano come si fa. La televisione è capacità di cambiare. Gli agenti diventano forti quando non sai fare televisione, e non sai riconoscere il talento, magari grezzo. Quindi te lo compri già fatto. Io vorrei che La7 fosse l’opposto di questo. Un luogo dove è bello fare questo mestiere. Libertà editoriale e qualità. Ma è la Rai che dovrebbe sperimentare. Perché può permetterselo. Può fare cose che alla tivù commerciale non sono consentite: progettare, aprire ai giovani. Secondo me loro hanno questo dovere editoriale. Che poi serve, aiuta tutto il sistema, perché è così che si sfornano nuovi talenti e si abbassa il potere degli agenti. Io non posso fare seconde serate dove metto alla prova i talenti grezzi. La Rai sì”. A proposito. Mi dici il nome di un talento giovane, uno bravo ma sul serio? “Alessandro Cattelan”. La Rai va privatizzata? “Il servizio pubblico può essere anche più piccolo, e mettere sul mercato il resto”.

 

Ma è vero che tua madre ti urlava sempre: te lo brucio quel televisore? “Verissimo. Io da ragazzo ho guardato qualsiasi cosa… ‘L’altra domenica’, il programma di Arbore del ’79, mi ha aperto la testa. Ricordo che fu come passare a un altro mondo. Arbore dimostrò che le cose si potevano anche fare in modo diverso” . E mentre parla di Arbore, e di quest’epoca di talento e di fantasia, di grazia civile e di coraggio creativo, Salerno lo fa con il tono di chi sia riuscito a vedere gli ultimi personaggi nei loro ultimi istanti. “Molte cose di Arbore le ho copiate, le ho portate a ‘Gazebo”, dice. “Intanto perché il programma è anarchico, e in questo senso arboriano. E poi ci sono dei dettagli, delle formule, che sono antiche. Il pubblico seduto in quel modo, per esempio. ‘Gazebo’ è giornalismo di strada, fatto da un gruppo di amici che si sono trovati da adulti e si sono scelti”. Esistono amicizie simili a un circo, a una cascata, un tumulto. “Gazebo è fatto da un gruppo di persone molto serie, che fanno i cretini in tivù. E che sono credibili. Mi ricordo come conobbi Diego Bianchi, cioè Zoro. Un mio amico, Lele Marchitelli, mi fece vedere un video di Diego sulla chiusura della campagna elettorale di Veltroni, mi pare fosse il 2008, a Piazza del Popolo. Girava su internet. Andammo io e serena Dandini fin sotto casa di Zoro per conoscerlo”. E non vi siete più lasciati.

 

Chi sono i tuoi maestri? “Tanti. Anche quelli con cui non ho lavorato mai. Chiambretti, Barbato, Corrado, ovviamente Arbore…”. E oggi in televisione cosa guardi, cosa ti piace? “E’ un periodo che mi piace un programma Mediaset che si chiama ‘Emigratis’”. E’ una roba volgarissima. “Sì. E’ il lato ipertrash di un viaggio nella società italiana”. E’ Bombolo. “Con lampi d’intelligenza”. ‘Le Iene’ ti piace? “Sì e no”. ‘Striscia’? “Non lo guardo spesso. Ma Ricci mi ha regalato ‘Te lo do io il Brasile’ che, detto tra parentesi, è un pezzo del format di ‘Gazebo’. Antonio Ricci è stato un creatore sorgivo di tivù”. Per qualcuno ha plasmato la società italiana come Machiavelli, come la Chiesa cattolica, come Pinocchio … “E’ il modello culturale che ha vinto”. Ciò che negli anni Ottanta poteva sembrare una mera bagatella, la palla di neve di un’estetica transitoria, ha invece assunto proporzioni enormi. “Nel bene e anche nel male. L’estetica berlusconiana”. Poi è arrivato Grillo. Che pensi del Movimento cinque stelle? “Nasce per colpa della classe politica. L’antisistema esiste perché il sistema non ha funzionato. Poi, certo, mi chiedo perché un partito antisistema voglia andare al governo. Ed essendo un cittadino di Roma, vista la Raggi, dico questo: a me non interessa se sono 5 stelle, 3 stelle, 2 stelle… ma dopo soli dodici mesi di governo questa città sta saltando. E ho l’impressione che chi non vive a Roma non abbia l’esatta percezione di quanto sia grave la situazione”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.