il telefono delle meraviglie

L'iPhone arriva a 15: e poi? Fino a che punto può migliorare per ritrovare lo stupore delle origini

Marco Bardazzi

La prossima versione dello smartphone di casa Apple cambierà qualcosa, ma le innovazioni sono finite da un po'. Per quanto potrà durare ancora prima di evolversi in altro? 

È l’equivalente contemporaneo della lampadina di Thomas Edison, del radiotelegrafo di Guglielmo Marconi, della Model T di Henry Ford. Vive in un universo a parte, in compagnia di oggetti di design esposti tra i capolavori del MoMA. E’ uno di quei rari prodotti che superano i normali confini del marketing per diventare parte della cultura pop e della storia dell’innovazione. E ora che sta per affacciarsi sul mercato accompagnato dal numero 15, non si può fare a meno di chiedersi: ma quante versioni si possono fare di un iPhone?

Il 12 settembre il mondo si sintonizzerà con la California per un rito annuale che è diventato il Super Bowl della tecnologia e che quest’anno è intitolato “Wonderlust” (si potrebbe tradurre come “voglia di meraviglie”, ma detto così fa pensare alla ministra Santanché e alla sua Venere). Giornalisti e addetti ai lavori convergeranno su Cupertino e milioni di appassionati si collegheranno in streaming con il quartier generale della Apple, il gigantesco edificio circolare che si vede anche dallo spazio e che potrebbe ospitare tranquillamente al suo interno tutto il Pentagono. Gli addetti ai lavori sono da giorni alle prese con la consueta raffica di indiscrezioni su cosa verrà presentato. Sono attesi nuovi modelli dell’Apple Watch, nuovi accessori per gli AirPods, nuovi contenuti per Apple Tv+ e mille aggiornamenti all’universo che si basa sul sistema operativo iOS. Ma il pezzo forte sarà l’arrivo in scena dell’iPhone 15, con tutta la consueta gamma di sotto-versioni: Plus, Pro, Pro-Max.  

Se si prova a entrare nella conversazione planetaria che precede sempre l’arrivo di un nuovo iPhone, si scopre che stavolta l’innovazione per la quale c’è maggiore attesa è che lo smartphone sia dotato di una presa di ricarica modello Usb-C. Tradotto dal tecnicismo: la Apple si arrende a uno standard imposto dall’Unione Europea per uniformare il più possibile i telefoni in giro sul mercato e rendere più aperta la concorrenza. 

Tema importante, per carità, ma senza dubbio lontano anni luce dall’eccitazione e dallo stupore che iPhone aveva introdotto nelle nostre vite con i suoi primi modelli. E l’attenzione allora si sposta su quel numero: quindici. Quanto manca alla fine dell’era dell’iPhone? Vedremo i modelli numero 20, 30 o 50 (per chi è giovane abbastanza da arrivarci)? O si comincia a intravedere un traguardo?

Se cerchiamo la risposta solo sul piano dei risultati economici, non ci sarebbe motivo di immaginare di rinunciare alla ventesima o trentesima versione. A inizio agosto Apple ha presentato i dati dell’ultima trimestrale e in un mercato in cui le vendite degli smartphone sono da due anni in calo, la casa di Cupertino continua a tenere grazie proprio al prodotto di punta. Gli 81 miliardi di dollari di ricavi che Apple ha raccolto nel secondo trimestre dell’anno sono fatti per metà da vendite di iPhone, con un calo solo dell’1 per cento sull’anno precedente. Il telefono delle meraviglie continua a costituire una parte rilevante del valore complessivo di Apple, che in Borsa ha raggiunto una capitalizzazione che sfiora ormai i 3.000 miliardi di dollari. 

Prima o poi però si entrerà in un mondo post iPhone. E per immaginarlo bisogna azzardare qualche paragone storico.

L’innovazione che da un certo punto di vista più assomiglia allo smartphone della Apple è l’auto Model T della Ford. Entrambi sono oggetti che hanno cambiato in modo sensibile la società, entrambi sono legati alla mobilità. La Model T permise per la prima volta agli americani di spostarsi dovunque in tempi rapidi e con costi ragionevoli, connettendo le città. L’iPhone ha permesso di muoversi portando con noi in ogni momento la nostra “seconda identità”, tutti i nostri dati e le nostre attività, connettendoci con tutto il mondo. 

Henry Ford produsse la sua macchina dal 1908 al 1927, cambiando nel corso del tempo colori e accessori un po’ come l’iPhone. Dopo un ventennio, ormai esaurite tutte le possibili migliorie e gli aggiornamenti da fare, la Model T fu mandata in pensione e arrivò un’auto diversa, la Model A, che conquistò a sua volta il mercato americano. 

Solo Apple sa se la strategia futura sarà tirare fuori uno smartphone completamente nuovo, un equivalente della Model A, o se si proseguirà con la Model T aggiornata ancora per decenni. Ma l’arrivo del Quindici è una buona occasione per guardare indietro e ricordare come siamo arrivati alla versione 2023, con la sua presa per la ricarica modificata per far contenti i burocrati di Bruxelles. 

Per capire tutta la portata dell’iPhone, bisogna partire da quella “i” minuscola davanti alla parola Phone. Il segreto in buona parte è nascosto in quella letterina che tutti quanti poi hanno cercato di imitare (quanti ridicoli “i-qualcosa” abbiamo visto in questi anni?). Steve Jobs la spiegò negli anni Novanta quando, tornato alla guida della Apple, la introdusse per la prima volta per presentare l’iMac, il primo prodotto della casa di Cupertino che presentava quella vocale insolita. Era l’epoca del boom di internet e del decollo dei personal computer connessi alla Rete in tutte le case. La “i” stava soprattutto a indicare la possibilità di entrare sul web e cominciare una nuova mobilità e una nuova condivisione prima sconosciute al genere umano. “L’iMac nasce dal matrimonio tra l’eccitazione di internet e la semplicità del Macintosh”, spiegò Jobs, aggiungendo però che la “i” voleva dire molto di più: “Per noi significa internet, individual, instruct, inform, inspire”. 

Sono quelle cinque parole che da quel momento guidarono l’innovazione in Apple e portarono nel 2001 al lancio del prodotto davvero rivoluzionario dell’epoca: l’iPod. Di lettori portatili per file musicali MP3 ce n’erano già tanti, ma Apple è sempre stata eccellente nel ripensare ciò che già esiste per riproporlo con modalità completamente diverse e inventare esperienze e bisogni che il consumatore non sapeva neppure di avere. La campagna pubblicitaria per il lancio, basata su silhouette di persone che ballavano con le cuffiette con il cavo collegate all’iPod, fu rivoluzionaria e riportò definitivamente la Apple a quel livello di coolness che aveva perso da anni. 

A quel punto, Jobs cominciò a preoccuparsi. Perché c’era incertezza su cosa fare dopo. I telefoni cellulari erano ormai esplosi da tempo in termini di vendite, avevano cominciato a incorporare anche le fotocamere, erano con tutta evidenza l’oggetto su cui puntare, ma non era chiaro come interpretarli. Intorno al 2005, improvvisamente si cominciò a parlare non più di “cellulare”, ma di “smartphone”, ma non era immediatamente evidente che cosa rendesse smart un telefono. Gli oggetti più all’avanguardia del momento erano il Razr della Motorola, con la sua capacità di chiudersi a guscio restando elegante, e soprattutto il BlackBerry con la sua tastierina che permetteva di inviare le prime mail su internet. 

Alla Apple pensarono in un primo momento a un’alleanza con Motorola per sviluppare insieme il Razr, ma Jobs non era convinto. Non era mai stata la politica della casa, a Cupertino le cose si inventavano da zero e da soli. 

Fu Jony Ive, il talentuoso designer della Apple, a presentare al fondatore l’idea rivoluzionaria a cui aveva lavorato da tempo con il suo team: sviluppare degli schermi multi-touch, da comandare con un semplice tocco del dito. Cominciò una segretissima caccia globale alla ricerca di piccole start-up che avevano inventato dispositivi in questo ambito e uno studio metodico di ogni tipo di vetro esistente al mondo, per trovare quello giusto. Le fissazioni e le ossessioni per cui era celebre Steve Jobs vennero a galla tutte insieme nella progettazione del primo smartphone della Apple, con innumerevoli tentativi fatti e poi bocciati, alla ricerca del giusto design, del tocco perfetto, dei contenuti ideali da mettere sullo schermo, dei colori e di ogni più microscopico dettaglio. 

Quando il 9 gennaio 2007 Jobs tirò fuori dalla tasca dei jeans il primo iPhone all’annuale convention Macworld, fu un evento che finì sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. Si capì immediatamente che era arrivato qualcosa di completamente nuovo. Non solo per quell’oggetto nero e misterioso o per quello schermo senza alcuna tastiera – un concetto innovativo all’epoca – ma anche per tutto l’ecosistema che gli ruotava intorno. L’iPhone, insieme all’iPod e al successivo iPad, ha introdotto tra le altre cose nel mondo l’idea della “app”, qualcosa che non esisteva prima e che in un attimo divenne una nuova industria globale.

Il primo iPhone arrivava in un momento storico particolare. Google aveva messo a disposizione modalità facili e rapide di ricerca di tutto quanto esisteva sulla rete, e questo apriva nuovi spazi ed esigenze di consultazione per gli utenti. Aveva anche creato le prime disruption nel mondo dei creatori di contenuti, con Google News e con il recente acquisto di YouTube. I blog, diventati una moda globale soprattutto grazie alla piattaforma di aggregazione Huffington Post, offrivano una mole enorme di nuove narrazioni non più controllate dai media tradizionali e dal mondo dell’entertainment. Nel 2006 era stato poi aperto a tutti l’accesso a un social network che prima esisteva solo nel mondo universitario, Facebook, che in breve divenne un fenomeno globale. Sempre nel 2006 era nata una piattaforma di microblogging, Twitter, destinata a far discutere a lungo.

L’iPhone permetteva un accesso facile e immediato a tutta questa nuova ricchezza di contenuti, in mobilità e senza dover utilizzare complessi accessi alla Rete da un computer da tavolo. Arrivava al momento giusto, segnò la fine di alcuni colossi della telefonia che non avevano capito il cambiamento (Nokia e la stessa Motorola) e il decollo di tanti altri che interpretarono in modo diverso il modello Apple, basandosi sul sistema aperto Android promosso da Google (Samsung in testa). 

Intorno all’iPhone stava cambiando anche il mondo. Erano ancora gli anni della presidenza di George W. Bush, ma un mese dopo la presentazione dello smartphone di Steve Jobs, il 10 febbraio 2007 a Springfield in Illinois, un giovane senatore nero presentò a sua volta sé stesso e la sua candidatura alla Casa Bianca. Pochi lo presero sul serio: sembrava impossibile che l’America potesse eleggere presidente il figlio di un immigrato africano che si presentava come Barack Hussein Obama. 

In Italia l’iPhone arrivò in vendita nel luglio 2008. A quel punto Obama era già lanciato verso la vittoria e si discuteva animatamente sulla privacy di Jobs, che appariva sempre più pallido e magro ma non voleva raccontare la malattia che già lo aveva colpito: fu duramente criticato in questo dagli analisti e investitori di Borsa, che lo ritenevano parte integrante del “valore” di Apple e quindi obbligato alla massima trasparenza. Da Roma a Milano si ripeterono le scene già viste in America con le code di gente in attesa di ritirare il primo iPhone, e anche con polemiche infinite per le tariffe con cui lo proponevano Tim e Vodafone: lo smartphone da 8 giga di memoria costava 199 euro, a cui aggiungere un canone mensile che variava in base ai pacchetti di minuti e di giga di navigazione da acquistare. 

Il resto è la storia degli ultimi quindici anni.

Oggi si calcola che ci siano 6,8 miliardi di smartphone nel mondo e la maggior parte si basano sul sistema Android, non su Apple, che resta un brand costoso e con un sistema chiuso ed esclusivo. L’universo delle app conta al momento su quasi nove milioni di proposte diverse, che nel 2023 sono state “scaricate” già 255 miliardi di volte (25 miliardi più dell’anno scorso). Il più grande app store anche in questo caso non è di Apple, ma è il Google Play Store con 3,5 milioni di proposte per Android, seguito da quello di Cupertino con 1,6 milioni. E’ un mercato che non esisteva prima dell’iPhone e che oggi viaggia verso un valore complessivo di seicento miliardi di dollari, con Google come vero big player. 

Arrivato alla versione 15, l’iPhone ovviamente non può più pensare di creare l’eccitazione che provocò nel 2007. Difficile immaginare quale altro prodotto possa dar vita a qualcosa di simile nei prossimi anni, in un’epoca dominata dall’intelligenza artificiale e da crescenti interrogativi sul peso che il mondo digitale ha assunto nelle nostre vite. ChatGPT, lanciato lo scorso novembre, ha creato un bel po’ di “rumore” intorno a sé, ma è difficile definirlo un oggetto di consumo.

Restano le immagini d’archivio a documentare quello che rappresentò non solo la presentazione di Steve Jobs nel gennaio 2007, ma anche la prima uscita nei negozi americani nel giugno successivo. Il fondatore della Apple si presentava nei suoi store con le folle che si aprivano come se fosse Mosè. I blogger ribattezzavano l’iPhone “Jesus Phone” e gli avversari si rodevano il fegato e facevano il tifo per un fallimento. Con un cartellino del prezzo negli Usa di 500 dollari, quell’oggetto “è il telefono più costoso del mondo e non avrà successo perché non ha una tastiera”, disse Steve Ballmer, all’epoca amministratore delegato della Microsoft. 

I fatti hanno dato ragione all’altro Steve.

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