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Tecnologia e regimi

L'innovazione non è neutrale perché incorpora il potere. Le “non verità” russe

Vittorio Emanuele Parsi

I dispotismi sono riusciti a volgere a loro favore la tecnologia, senza guardare al futuro e restando ancorati al passato. Ma le istituzioni democratiche possono sempre trovare la via perché diventi un volano per le libertà e il benessere

Qual è il rapporto tra innovazione tecnologica e regime politico o, per essere più precisi: l’innovazione tecnologica collegata alla rivoluzione della comunicazione offre nuovi strumenti di resistenza rispetto al potere, oppure lo rende più oppressivo? Nel provare a rispondere a un simile quesito la memoria non può non andare indietro all’esordio delle primavere arabe del 2011, soprattutto alle rivoluzioni tunisina ed egiziana. Ricordiamo tutti molto bene la “sbornia” che assalì tanti osservatori, fiduciosi che la rete consentisse inedite forme di “rivoluzioni senza leader”, anzi dalla leadership diffusa e mutevole, e quindi molto più difficili da reprimere. Abbiamo visto tutti come sono finite: con sostanziali controrivoluzioni (come in Egitto) o per lo meno con reazioni “termidoriane” (come in Tunisia), magari dopo un transito attraverso fasi di dirottamento degli originari movimenti e moventi rivoluzionari da parte di soggetti politici più tradizionali e tradizionalmente organizzati (i Fratelli musulmani). Sono state sequenze di eventi che ci hanno ricordato come, di fronte a una rivolta e persino a una rivoluzione che assuma inedite caratteristiche organizzative e operative, ai detentori del potere rimane sempre l’opzione di inasprire la repressione, di esercitare una violenza più brutale e indiscriminata, “primitiva” persino, come abbiamo tragicamente imparato in Siria.

 

L’errore principale di quella illusione fu proprio quello di non comprendere – sottovalutandolo – il ruolo del potere, il peso che esso ricopre al cuore della politica e come, per i despoti, esso rappresenti un fine in sé, l’oggetto e il premio finale della competizione, perché solo dal suo esercizio assoluto dipendono la sopravvivenza e l’arricchimento dell’entourage del tiranno. Le società dei paesi retti dal dispotismo non sono “società civili” – nell’accezione ormai diffusa del concetto – ma vere e proprie società di “senza potere”, in balìa del potere costituito e con scarse possibilità di ribaltarlo: società di “sans papiers”, per riprendere quella locuzione con cui, una ventina di anni fa, in Francia venivano chiamati gli immigrati irregolari. Oggi la nostra percezione ha fatto un passo in avanti – sia pure non nella direzione che avremmo auspicato – e constatiamo che sono proprio i “neodispotismi” ad aver saputo volgere a loro favore la tecnologia. Il “great firewall” (la grande muraglia elettronica cinese) è una realtà ben più tangibile e progredita della Nuova via della seta. Sette delle prime dieci compagnie mondiali attive nel settore della videosorveglianza e del riconoscimento facciale sono cinesi, mentre durante le fasi più vivaci di protesta nei confronti delle draconiane modalità di applicazione del lockdown, le autorità di Pechino hanno fatto ampio uso di quelle tecnologie per sorvegliare “foucaultianamente” i propri sudditi, estendendo a tutta la società le misure fino a quel momento applicate solo alla minoranza uigura. E ulteriori micidiali azioni digital-repressive sono state attuate nei confronti dei cittadini di Hong Kong.

 

La Russia di Vladimir Putin, dal canto suo, ricorda sinistramente il totalitarismo orwelliano dipinto in “1984”. La capillare sorveglianza visiva ed elettronica è associata a uno spietato uso della violenza fisica nei confronti degli oppositori interni, per piegare la cui volontà non si esita a far ricorso all’omicidio. Mentre negli stadi si convocano grandiose ed entusiastiche manifestazioni popolari a sostegno del regime, il Cremlino si serve di una rete estesissima di produzione di “non-verità”, poi diffuse attraverso i canali tradizionali e quelli informatici, e punisce chi non si piega all’ortodossia della “neo-lingua”, ostinandosi a chiamare guerra quella “operazione militare speciale” che da 16 mesi sta massacrando il valoroso popolo ucraino. Come nella distopia di Orwell, l’ossessione del Cremlino è tutta volta a riscrivere continuamente il passato per asservirlo e renderlo coerente rispetto al presente che Vladimir Putin impone al paese. Paradossalmente, a Putin sembra non interessare il futuro, non c’è nessun intento immaginativo nella sua “visione”, ma semplicemente la tetragona riproposizione di un eterno presente, capace di perpetuare l’unica cosa che al despota interessa veramente: il suo potere.

 

Torniamo così alla categoria del potere e al suo rapporto con la tecnologia: quest’ultima non è mai neutrale, nel senso che incorpora, assume e prospetta, un modello implicito delle relazioni di potere che sono però in parte interne e in parte esterne alla tecnologia medesima. Mi spiego meglio. Un vascello può risalire meglio o peggio il vento oppure tendere all’orza piuttosto che alla puggia per le sue proprie caratteristiche di progettazione e costruzione. Ma la sua andatura, la sua rotta, il suo tempo di percorrenza dipendono dal vento, dal mare, dall’equipaggio: cioè da caratteristiche esterne. Ecco, possiamo immaginare che qualunque tecnologia incorpori delle caratteristiche che sono relative al potere: nei termini dell’accesso alle informazioni e della trasparenza dei processi. Ma quello che ne determina l’utilizzo repressivo o liberatorio è esterno alla tecnologia stessa, anche alla più poderosa, e riposa sulla saldezza delle istituzioni e dei princìpi (democratici o meno) dei sistemi che la impiegano e nel livello di consapevolezza delle società all’interno delle quali dispiega la propria azione. Sta quindi alle nostre società aperte e alle istituzioni democratiche che ne regolano la vita e le proteggono trovare le modalità adeguate affinché le tecnologie dell’immediato futuro (come le applicazioni dell’intelligenza artificiale) costituiscano un volano per le nostre libertà e il nostro benessere, senza abbandonarle a chi sta dimostrando di saperle e volerle usare per riportarci a una barbarie sia pure ipertecnologica.

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