Foto: Epa/Yonhap South Korea Out

I Big Tech si muovono nel conflitto in Ucraina, con un limite grosso

Pietro Minto

Al momento non si può ancora parlare di cyberguerra quanto di uno scontro geopolitico (e militare) in cui anche i giganti digitali sono chiamati a prendere una posizione

Poche ore prima che l’esercito russo invadesse l’Ucraina, nella notte del 24 febbraio scorso, un programma informatico malevolo, un cosiddetto “malware”, attaccava i siti delle istituzioni ucraine. Il software, soprannominato “FoxBlade”, era di tipo “wiper”, programmato per cancellare le memorie digitali dei servizi colpiti: in questo caso, ministeri ed istituti di credito.

A scoprire l’avanzata del malware è stato il “Threat Intelligence Center” di Microsoft, una divisione dell’azienda che si occupa di cybersicurezza. Da allora il gigante di Redmond ha lavorato da vicino con il governo ucraino e non solo, estendendo la propria assistenza alla Polonia, le repubbliche del Baltico e altri paesi dell’Unione europea. Nel blog dell’azienda, il vicepresidente di Microsoft Brad Smith ha ricordato “che siamo una società e non un governo o uno stato-nazione. In momenti come questo, è di vitale importanza per noi lavorare in concerto con chi è al governo”, rinnovando la “vicina coordinazione” con Ucraina, Unione europea, gli Stati Uniti e la Nato.

Non è però così semplice: la cyberguerra non conosce confini e si basa sulla rete globale per eccellenza, il “World wide web”. Recidere i legami tra le aziende tecnologiche e un mercato intero è complesso e, in molti casi, finirebbe per togliere servizi essenziali alla popolazione russa, più che al suo governo. Per questo, per ora, non si può ancora parlare di cyberguerra quanto di uno scontro geopolitico (e militare) in cui anche i giganti digitali sono chiamati a prendere una posizione.

Esistono diversi livelli del conflitto. Il primo, già osservato, riguarda la sicurezza informatica e ha visto protagonista Microsoft, che insieme ad Amazon ha una lunga storia nel settore (le due aziende, insieme a Google e Oracle, si contendono la gestione del cloud del Pentagono). Sotto questa superficie, c’è un reticolo di interessi che i fatti degli ultimi giorni non hanno ancora intaccato del tutto.

Il secondo strato è legato all’informazione e alla disinformazione. Ogni conflitto contemporaneo è fatto anche di propaganda, hashtag calibrati, filmati spacciati per veri, bufale gonfiate a dovere. Tutti i maggiori player, Alphabet, Meta, Apple, Microsoft e pure TikTok, hanno agito bloccando Rt e Sputnik, due testate di propaganda governativa russa che da anni trasmettono online (e che sono state bloccate anche dall’Unione europea). Una decisione tardiva che dimostra quanto le fake news siano un problema alla portata delle piattaforme, che però decidono di intervenire solo quando sono costrette a farlo. Per questo, ci vuole una guerra, o un’insurrezione tipo quella di Capitol Hill, per sbloccare le cose.

Tanta cautela ha radici profonde. C’è chi ha notato come anche il comunicato di Microsoft non si dilunghi troppo sui legami del gigante con la Russia (che è tra “le fonti di materiale grezzo” dell’azienda, come nota il Seattle Times), mentre solo nelle ultime ore aziende come Apple hanno deciso di sospendere la vendita dei suoi prodotti nel paese. Allo stesso tempo, Nick Clegg, ormai vice-Zuckerberg presso Meta, ha rimesso la divisa da ministro degli Esteri di Facebook, annunciando una task force russo-ucraina per prevenire la diffusione di fake news sulle piattaforme. Ma ha anche risposto a chi, dall’Ucraina, chiedeva di togliere direttamente l’accesso di Instagram e Facebook alla Russia. Meta ha rifiutato di farlo. “I russi li stanno usando per avere informazioni indipendenti”, ha precisato Clegg. “Il governo russo sta già strozzando la nostra piattaforma. Crediamo che spegnere i nostri servizi silenzierebbe delle voci importanti in un momento delicato”.

Nel corso dell’ultima settimana sono cambiate molte cose. Ma non abbastanza da mutare i legami più profondi, basilari, tra i giganti digitali e i mercati in cui operano, dalla produzione di hardware, alla vendita di servizi passando per la produzione di contenuti. Se il bando di Rt e Sputnik è un passo nella giusta direzione, il rischio è che il resto delle decisioni prese da Big Tech finiscano per ledere i cittadini russi, più che il regime di Putin. E’ quello che succede quando la pressione internazionale spinge le aziende a prendere provvedimenti severi, e in fretta. E soprattutto, quando le società in questione sono le stesse che aspettano da anni il momento giusto per passare dalla parte dei buoni, dopo anni di scandali continui. Niente cyberguerra, quindi, ma solo un riposizionamento generale. Almeno per ora.

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