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Così l'emergenza ha cambiato la televisione. Grazie a internet

Stefano Cingolani

Il 2020 doveva essere un anno di svolta tecnologica per la tv anche in Italia, può diventarlo su scala più ampia e in tutto il mondo. Ma dobbiamo colmare i nostri ritardi

Ora che il Grande Confinamento si trasforma sia pur a fatica in una graduale riapertura, si comincia a fare un primo bilancio. Il disastro è sotto gli occhi di tutti, meno si parla di chi sta uscendo vincitore da questa guerra anomala. E tra questi brillano senza alcun dubbio internet e la televisione. Vuoi vedere che la convergenza a lungo cercata, si sta materializzando nel bel mezzo di questa tragedia biblica? Il 2020 doveva essere un anno di svolta tecnologica per la tv anche in Italia, può diventarlo su scala più ampia e in tutto il mondo. Incollati agli schermi per seguire le battaglie contro il coronavirus, un fronte dopo l’altro, dallo scacchiere asiatico a quello sotto casa nostra. Incollati ai computer per lavorare, studiare, intrattenerci. Pronti a seguire in streaming la serie preferita o a rivederci i film più amati, dal cinema vintage alle ultime novità. Lo schermo, il cavo, il satellite, sono i nostri ponti con la vita, con quella che è stata e quella che sarà, quando verrà l’alba.

 

Il revival della televisione tradizionale è impressionante; per capire se è un intermezzo o un grande ritorno, bisognerà attendere il ripristino della normalità. Quel che sta diventando in ogni caso un punto fermo, anche per l’avvenire, è il salto che le tecnologie digitali stanno compiendo in mezzo al virus, anzi contro il virus. Intendiamoci, la pandemia ha colpito i programmi televisivi. Gli studi vuoti, molti talk show sospesi (anche se purtroppo sono rimasti aperti molto spesso i peggiori), produzioni rinviate, eventi attesi ormai mandati a monte, calendari da ripensare.

L’intrattenimento è il primo a soffrire, mentre l’informazione ne esce potenziata e rafforzata, solo che i soldi non si fanno con l’informazione, nemmeno nelle televisioni private. Il colpo duro viene dalla pubblicità, un mercato già in ridimensionamento prima della pandemia. Dunque l’impatto sui conti di tutti i broadcaster, compresi quelli di stato, sarà senza dubbio negativo. Morgan Stanley calcola per gli Stati Uniti una caduta dei redditi operativi di circa il 45% quest’anno, ma non è pessimista sul futuro. Meglio andrà per i canali via cavo perché il lockdown ha favorito gli abbonamenti.

 

L’orizzonte finanziario appare fosco, ma avrà un effetto temporaneo e comunque non oscura il fatto che la tv, da molti condannata a sicuro declino, conferma di essere lo strumento chiave dell’informazione e dell’intrattenimento. E il suo core business è ancora una volta la diretta. Possiamo cogliere gli eventi in tempo reale con un telefonino, rilanciarli sui social media e imbastirci su anche quattro chiacchiere o magari riflessioni più approfondite. Eppure non c’è nulla in grado di elaborare l’evento e trasformarlo in messaggio come la televisione; oggi, non diversamente da cinquant’anni fa.

 

La pandemia ha addirittura rafforzato la tv in streaming dove è avvenuta una rottura di paradigma, dovuta soprattutto a Netflix che, secondo la Nielsen ha assorbito un terzo del tempo in più trascorso dagli americani davanti ai teleschermi. Con 68 milioni di sottoscrittori la sua posizione si è rafforzato rispetto ai concorrenti. Subito dopo arriva YouTube. Disney Plus, lanciato nel novembre scorso e che punta su 58 milioni di abbonati, non è stato favorito dal destino: il debutto europeo e italiano (il d-day è stato il 24 marzo) è caduto in pieno Covid-19. Però la numero uno tra le major di Hollywood può contare su una biblioteca davvero babelica che comprende Pixar, Lucasfilm, Marvel, National Geographic e Fox, l’ultimo acquisto strappato a Rupert Murdoch. Ora che si sono fermate le nuove produzioni, è in grado di pescare quel che vuole dalla sua enorme riserva. Nel frattempo, le maggiori reti riempiono i magazzini in vista del momento in cui la vita riprende i suoi ritmi normali.

 

Nessuno ha ancora definito un modello chiaro e in qualche modo universale per la nuova televisione a differenza da quel che accadde negli anni ‘50 e poi con l’introduzione del colore che ha cambiato il modo di fare televisione. La tecnologia influenza i contenuti, ma forse mai le novità sono state così radicali come con l’arrivo di internet; lo streaming più il 5G stanno trasformando l’intero mondo dell’intrattenimento e anche quello dell’informazione s’appresta a cambiare.

 

L’Italia è rimasta indietro e l’impatto della pandemia rischia di cumulare i ritardi dovuti a forza maggiore ai ritardi dovuti alle scelte politiche. Per fare un esempio, le Olimpiadi del prossimo anno saranno in 8K, ma in Italia oggi la visione più avanzata è con lo standard digitale 4K ultra HD che equivale a circa 4 mila pixel, e si può avere via satellite. Lo switch off della televisione terrestre inevitabile per liberare le frequenze per il 5G (quelle a 700 megahertz impegnate oggi per le trasmissioni tv), procedeva già lentamente con un orizzonte biennale, 2020-2022, entro il quale gli utenti debbono acquistare apparecchi smart o decoder, grazie a un incentivo del governo. Cosa accadrà non è affatto chiaro. Nel frattempo, le piattaforme satellitari e Itv saranno l’ancora di salvataggio per la televisione lineare, per l’on demand e per il consumo radiofonico. In Italia la piattaforma Tv Sat resta l’unica a non incappare nel ritardo tecnologico della televisione terrestre. Il ciclo della tv digitale è entrato nella sua fase terminale. È finita la stagione in cui si moltiplicavano i decoder (unico, proprietario o aperto) e del proliferare dei telecomandi, con la SmartTV tutto converge in un unico terminale. Il satellite e la rete internet rappresentano un nuovo modello di consumo dei contenuti. La tv satellitare può essere il piatto forte, che garantisce le pietanze robuste della televisione (informazione e grandi eventi in diretta), mentre l’on demand fornisce il contorno e il dessert, l’intrattenimento personalizzato.

 

C’è chi dice che le priorità sono altre. Questo può essere vero nella fase in cui bisogna rimettere in moto la catena dell’offerta produttiva di base. Ma sarebbe un grave errore proteggere i settori tradizionali a scapito di quelli ad alta tecnologia dove l’Italia ha già un handicap considerevole. Pensiamo alla rete internet che rappresenta un’assoluta priorità. Coltivare il campicello non è la base socio-economica del futuro post-coronavirus e il modo in cui la gente si è comportata durante il lockdown ce lo dimostra. Nel mondo, vince la sfida chi ha il tasso tecnologico più alto e le infrastrutture più efficienti. Una volta avviata la ripresa, bisognerà aprire una discussione, troppo a lungo evitata, su come e dove indirizzare gli investimenti pubblici e privati, perché il ritardo nel digitale è uno degli handicap maggiori con i quali l’Italia entrerà nel mondo di sopra, quello che ha vinto la pandemia.

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