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Come si organizza la resistenza dei media contro Facebook e Google

Eugenio Cau

Gran discorso di Mark Thompson, ceo del New York Times, su verità e algoritmo

Roma. “E’ come quando due animali fanno sesso e poi i loro genitali restano incastrati insieme e non si possono più separare”. Nick Bilton, columnist famoso che si occupa di media e tecnologia per Vanity Fair, ha usato una similitudine ardita per definire il rapporto perverso tra i media e Facebook. Bilton, il cui commento è stato raccolto da BuzzFeed, parlava a margine di un evento organizzato da Open Markets Institute, un think tank con sede a Washington che ha un obiettivo principale: spezzare il monopolio della Silicon Valley, pericolo per la tenuta della democrazia. Open Markets Institute è una delle tante organizzazioni americane nate per contrastare il predominio della Silicon Valley, ma è una delle più influenti. All’evento organizzato martedì a Washington c’erano senatori e deputati, c’era il capo dell’antitrust del dipartimento di Giustizia americano, e soprattutto c’erano alcuni dei più importanti mogul dei media tradizionali, tutti a dire in coro: Facebook e Google sono un pericolo, bisogna trovare il modo di fermarli, ne va del nostro business ma soprattutto ne va della democrazia.

 

Il più forte nel suo intervento è stato Mark Thompson, ceo del New York Times, che ha detto che il più grande editore di news del mondo – Facebook – semplicemente non capisce le news. Non è un gioco di parole: l’algoritmo di Facebook, ha detto Thompson, non riesce a capire che un articolo a proposito della pornografia (la metafora sessuale prosegue) non è un articolo pornografico. Non riesce a distinguere tra giornalismo e attivismo fazioso. Eppure, proprio quell’algoritmo è diventato l’unico controllo editoriale che si frappone tra le notizie e milioni di utenti. “Le società aperte hanno bisogno di punti di controllo editoriale multipli e indipendenti, che possano competere tra loro e controllarsi a vicenda, e tra i quali il pubblico può scegliere”, ha detto Thompson. Oggi, tuttavia, questa pluralità si è ridotta al singolo controllo di Facebook, che è diventato editor in chief dell’America e di tutto l’occidente ma non è in grado di fare alcuna valutazione di qualità giornalistica. Per Thompson, il progetto di Facebook di valutare la qualità delle testate in base al criterio della “fiducia condivisa”, vale a dire calcolando algoritmicamente quanti utenti si fidano di questa o quella notizia, è “profondamente pericoloso”, perché significa affidare al sentimento mutevole della popolazione la decisione editoriale – e farlo a porte chiuse usando un algoritmo che nessuno sa davvero com’è fatto. In base a questo criterio, nella Russia putiniana i giornali di opposizione sarebbero completamente eliminati.

   

Anche l’altro grande Thompson del mondo dei media, Robert, presidente di News Corp, si è scagliato contro l’algoritmo (o meglio, i tre algoritmi che regolano il mondo digitale: quello di Facebook, quello di Google/YouTube e quello di Amazon): serve un’agenzia di regolamentazione dell’algoritmo che gestisca le conseguenze esplicite ed implicite della pervasività delle piattaforme sulla nostra vita sociale.

 

Il povero rappresentante di Facebook presente all’incontro si è sottoposto a ore di scudisciate di questo tenore, e alla fine uno dei partecipanti ha detto a BuzzFeed che sembrava di assistere alle riunioni in cui il Partito repubblicano si è riorganizzato negli anni Settanta, per poi tornare al potere e alla rilevanza ideologica nei decenni successivi. Mentre nella costa ovest d’America esiste soltanto il futuro, nella East Coast i grandi mogul dei media tradizionali mobilitano la politica in un’opera di resistenza. Culturale, ideologica e anche economica: Mark Thompson ha detto esplicitamente che i media vogliono più soldi dalle piattaforme digitali per ospitare i loro articoli, ché Facebook sarà anche un pericolo per la democrazia, ma è pur sempre una delle aziende più lucrose d’America, è meglio che apra i forzieri. La battaglia è appena cominciata. Forse non deciderà il destino della democrazia, certamente deciderà il futuro dei vecchi giornali.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.