I bianchi che mandano su WhatsApp messaggi con faccini neri sono razzisti?

Stefano Basilico

Nuove frontiere del dibattito sull'appropriazione culturale

Londra. La questione razziale, diventata esplosiva negli Stati Uniti, trova una cassa di risonanza potente online. Il web è utilizzato come strumento di mobilitazione sia dagli organizzatori della manifestazione razzista “Unite the right” di Charlottesville che dagli attivisti per i diritti civili. I social network sono diventati luoghi di discussione che si sovrappongono alle piazze reali e stanno modificando le pratiche di dibattito.

 

L’anonimato del web garantisce un pericoloso schermo che permette di rendere pubbliche le idee discriminatorie, ma al tempo stesso la potenza comunicativa dei social permette di rendere pubblici numerosi casi di discriminazione da parte di esercenti e datori di lavoro.

 

Uno dei temi più in voga nell’ultimo periodo, almeno nel mondo anglosassone, è quello dell’appropriazione culturale, che avviene quando persone bianche mutuano fattori culturali – dallo slang al taglio di capelli – propri delle minoranze etniche. Una nuova branca del dibattito riguarda le pratiche comunicative online, con alcuni attivisti per i diritti che accusano altri utenti di “digital blackface”. Il “blackface” avviene quando persone bianche si “travestono” nel corso di feste o spettacoli, da persone di colore, spesso con intento irrisorio.

 

Nel mondo dei social e delle applicazioni di messaggistica avviene, secondo gli accusatori, quando i bianchi utilizzano emojis che raffigurano le minoranze etniche. Alcuni anni fa, dopo diverse pressioni, i social network e le app come WhatsApp hanno iniziato a inserire diverse tonalità di colore all’interno delle proprie “faccine”, per rappresentare anche neri, asiatici e ispanici oltre ai bianchi (le faccine originali erano in realtà gialle). Victoria Princewill, collaboratrice di Guardian e Independent e attivista nella campagna “Rhodes must fall” per eliminare la statua del colonialista Cecil Rhodes da uno dei campus di Oxford, ha realizzato un video per la Bbbc sul tema. Durante il suo discorso Princewill parla delle GIFs, brevi video utilizzati per commentare un post o rispondere a un messaggio, che spesso raffigurano celebrità nere, come Michael Jackson che mangia popcorn o Oprah Winfrey in versione Barbara D’Urso lacrimante. Princewill se la prende anche con i bianchi che sulle app di messaggistica utilizzano emojis di colore diverso, perché “i neri non esistono per il divertimento delle altre persone”, perché “non simboleggiano emozioni portate all’eccesso” e infine perché “non servono a farti sentire più vivace, più sexy o più di strada”. Il video ha scatenato reazioni scomposte sui social, con molti neri che hanno accusato la giornalista di creare un problema sul nulla. Ma il tema è sensibile e lo dimostrano le campagne sul digital blackface che hanno colpito alcune app. Settimana scorsa FaceApp, un’applicazione che permette di modificare le proprie foto, è stata costretta ad eliminare alcuni filtri con cui gli utenti potevano cambiare il colore della propria pelle e trasformare il proprio selfie in nero, indiano e asiatico (o viceversa, bianco). La stessa app è stata attaccata lo scorso aprile, quando ci si è accorti che il filtro “hot” per rendere più belli i selfie oltre a ingrandire gli occhi e arrossare le labbra sbiancava la pelle. Negli stessi giorni anche Snapchat, più popolare di FaceApp, fu al centro di alcune polemiche. In un filtro dedicato alle celebrazioni del 20 di aprile – considerata la giornata internazionale della cannabis – gli utenti potevano trasformarsi in Bob Marley con tanto di rasta e cappello. Snapchat venne accusata di appropriazione culturale e di voler degradare la cultura giamaicana monetizzando al tempo stesso l’iconicità di Marley nel quarantennale di Exodus.

 

L’aumento ricorrente e la “digitalizzazione” delle polemiche sull’appropriazione culturale, sono la cartina di tornasole della complessità di un dibattito – quello sull’identità – in continuo mutamento. La progressiva accettazione della diversità nelle civiltà occidentali si scontra con la difficoltà di conciliare con il “mainstream” culture fino a poco tempo fa ghettizzate e considerate “altro”.

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