Perché i robot non avranno il sopravvento sugli esseri umani

Umberto Minopoli

Il lavoro in fabbrica non è destinato a scomparire, ma a cambiare l’automa antropomorfo, topos controverso dell’anima occidentale

Ma davvero “cesseremo, un giorno dei prossimi trent’anni, di essere la cosa più brillante di questo pianeta” (James McAlear)? Ci sarà davvero il sopravvento dei robot, delle macchine intelligenti sull’uomo? La domanda è analoga a quella sull’esistenza di civiltà extraterrestri: i fattori di probabilità congiurano per il sì. Ma se si prova, ad esempio con la celebre equazione di Drake, a dare una base matematica, predittiva, calcolabile alla probabilità della vita extraterrestre, la conclusione è banalmente deludente: la possibilità di incontrare alieni varia tra zero e quasi infinito. Regge ancora, a quasi un secolo, il paradosso di Fermi: più penetriamo l’universo osservabile più, singolarmente, tarda a materializzarsi la vita. Per l’intelligenza artificiale vale un paradosso analogo: l’automazione procede con la fantastica velocità della legge di Gordon Moore, fondatore di Intel, che la formulò nel 1965 e che postula il raddoppio della potenza di calcolo dei computer ogni diciotto mesi. Assolutamente provata. E tuttavia, la soglia dell’oltreuomo, del sopravvento dei robot, della certificata replicazione del cervello umano in una macchina, non sembra affatto avvicinarsi.

  

Nonostante tutto, dopo un secolo e più di dilemmi sul macchinismo, restiamo inchiodati a due opposte profezie (neppure autoescludenti tra di loro): l’una tecnoutopista, l’altra scettica e catastrofista. La prima, ottimistica e illuminista, guarda al macchinismo come liberazione (dalla fatica, dalle costrizioni naturali, dai rischi e dalle pericolosità del lavoro manuale). E’ Karl Marx (nel celebre “frammento sulle macchine” del 1857) che fissa la narrazione tecnoutopista: il macchinismo libera lo sviluppo sociale dal dominio della “base miserabile” del lavoro mercificato, dello sfruttamento dell’energia fisica del lavoro operaio (plusvalore) e afferma, come nuova base economica, il sapere sociale, la conoscenza (tecnologica), il “general knowledge” applicato alle forze produttive. In tale accezione il macchinismo appare a Marx come il più potente fattore di sviluppo e potenziamento delle facoltà umane. La profezia catastrofista nasce negli anni Quaranta, influenzata dalla spirale della Guerra fredda e dai dilemmi dell’olocausto nucleare: la possibilità che la più straordinaria tecnologia prodotta dall’umanità, quella nucleare, possa sfuggire al controllo e segnarne la fine. E’ Isaac Asimov, scienziato e futurologo, a indicare in Io robot, bestseller della letteratura fantascientifica, il dilemma del macchinismo: l’uomo replicherà – la previsione di Asimov è per il 2035 – il proprio cervello in un androide. Sarà inevitabile. Ma a quel punto il “cervello positronico” (l’antimateria di cui Asimov immagina costituita la mente dei robot) può ingaggiare una sfida finale col cervello umano. Nella fantascienza di Asimov, l’uomo può difendersi dal sopravvento dei robot. La tecnologia consente di programmare il software dei robot con algoritmi embedded di autocensura e autocontrollo. Le famose “tre leggi della robotica” di Asimov (che, nella sostanza sanciscono la servitù del robot all’uomo) possono essere iscritte nel programma delle macchine intelligenti come una sorta di coscienza, di anima dei robot. Ma in uno dei suoi racconti il robot androide Viki (Virtual Interactive Kinetic Intelligence) precipita in una trappola logica e, interpretando stupidamente le tre leggi, sfugge al controllo umano. Dando vita alla rivolta degli androidi.

  

A poco meno di vent’anni dal 2035 è più o meno reale il dilemma di Asimov? L’intelligenza artificiale si avvicina o si allontana dal modello di Viki? E’ l’androide, che replica il cervello umano, il modello di robot che è tra noi? Dobbiamo, veramente, nutrire la paura tecnologica del sorpasso dei robot? Io credo che la risposta sia, fondatamente, no. In realtà la tecnologia del macchinismo, dell’intelligenza artificiale e dell’automazione ha preso una strada diversa da quella del modello Viki. Non è così sicuro che l’androide sia il nostro destino. Ma ci arriveremo.

Intanto la paura di oggi non è questa. E’ quella della distruzione dei posti di lavoro: dalla fabbrica ai servizi si moltiplicano le previsioni sui numeri della cancellazione di lavoro umano sostituito da robot e macchine intelligenti. All’ultimo meeting del World Economic Forum, un rapporto ha fissato, entro il 2020, il rimpiazzo di 5 milioni di posti di lavoro umano, con altrettanto robot, in 15 paesi del mondo. Ma è veramente così? Siamo, davvero, a un concomitante, simultaneo e universale balzo dell’automazione nel mondo? E che crea solo eserciti di nuovi disoccupati? Non è così. La realtà dell’industria dell’intelligenza artificiale è assai diversa. Intanto essa non è affatto worldwide. Come fa rilevare Alec Ross, tecnologo americano, ne "Il nostro futuro (Feltrinelli 2016), ben il 70 per cento della produzione e vendita di robot resta circoscritto a cinque paesi: Giappone, Stati Uniti, Corea del sud, Cina e Germania. Sconfinate aree del mondo (pensiamo alla Russia) non acquistano e non producono robot. E il divario, scrive Ross, potrebbe persino accelerare e allargarsi: sono questi cinque paesi che stanno realizzando la “robotica di nuova generazione”, l’estensione dell’automazione intelligente dai processi di fabbricazione alla società, ai servizi, alla casa, al consumo. Il “nuovo ecosistema robotico”, la rivoluzione innovativa determinata dal connubio tra AI (Artificial Intelligence) e IOT (Internet Of Things), potrebbe rivelarsi, perciò, meno diffuso di quanto si immagini e determinare nuovi divari e gerarchie.

   

Il gap tra i cinque paesi driver dell’automazione e gli altri centonovantuno del mondo dovrebbe diventare il tema delle agende politiche, molto più e prima della paura del labour saving. I vantaggi competitivi e di produttività consentiti dall’automazione assorbiranno ampiamente i costi della disoccupazione robotica e delle politiche attive per la formazione, riqualificazione e il reindirizzo lavorativo dei looser della robotica. Determinando un doppio divario. Le cinque grandi aree del mondo più avanti nella robotica si avvantaggeranno del boost tecnologico sui fattori di crescita, da un lato, ma si troveranno, anche, più avanti nelle politiche sociali e nella formazione del capitale umano necessario all’automazione. All’opposto, sostiene Ross, la particolarità della robotica e del nuovo macchinismo è tale che “consentirebbe di ipotizzare salti tecnologici”: non è necessario dover possedere una legacy di vecchia industrializzazione per godere dei vantaggi dell’automazione.

  

Ross porta l’esempio di paesi dell’Africa e dell’Asia che ipotizzano di realizzare un balzo nella robotica, “senza dover impiantare una base industriale avanzata”. E si può diventare leader nell’automazione di un prodotto partendo da tutt’altre basi: dice nulla che, tra tutte le case automobilistiche, il capofila nel progetto dell’auto senza conducente sia Google? Le stime sul “robot replace human” appaiono largamente incomplete. Si sottostima completamente l’occupazione sostitutiva che fa da contraltare al labour saving. L’approccio catastrofista sul “robot replace human” rimuove, colpevolmente, fenomeni già evidenti che delineano novità rispetto alle fasi iniziali della globalizzazione. Ad esempio, l’automazione e i robot stanno determinando, embrionalmente, un curioso fenomeno: l’inversione dei processi di delocalizzazione. Nei paesi asiatici, a partire dalla Cina, lo crescita a due cifre ha livellato, com’è giusto che fosse, salari e trattamenti col resto del mondo. E’ in Cina che oggi, paradossalmente, si registrano i fenomeni più incisivi del labour saving e del “robot replace human” in senso tradizionale. Tutta la cintura delle fabbriche di componenti hardware, con le loro centinaia di migliaia di addetti, che fanno il polmone manifatturiero mondiale degli aggeggi di Apple, Microsoft e Samsung, sta passando a un uso massiccio della robotica. Per fini di costo della manodopera. Di converso, il declino del costo del lavoro come fattore della delocalizzazione asiatica, lascia ipotizzare possibili ritorni della manifattura in occidente. Ovviamente nelle forme dell’industria 4.0, largamente fondata sui processi innovativi e sull’abbattimento delle esternalità ambientali.

   

Il catastrofismo e la depressione da “disoccupazione tecnologica e da robot” sottovaluta, inoltre, una considerazione che dovrebbe apparire ovvia: investimenti significativi in automazione suppongono un contesto economico espansivo. Invece di bizzarre suggestioni di tassazioni punitive degli investimenti in robotica, una versione moderna di luddismo tecnologico, vanno immaginate politiche attive e specifiche rivolte al “mercato del lavoro dell’automazione” (riqualificazione dei lavoratori spiazzati dall’innovazione, formazione dei giovani, nuove professionalità e nuovi mestieri richiesti dall’automazione). E a ciò andrebbero accompagnati modelli nuovi di relazioni industriali, con sindacati esperti di governo della produttività e nuovi strumenti di fiscalità che traggano nutrimento dai profitti da innovazione senza deprimere gli investimenti. In ogni caso la paura dell’automazione, intesa come “robot replace human”, appartiene piuttosto alla preistoria del macchinismo.

   

La manifattura 4.0, che si fonda sulla connessione tra Ai e Iot, è del tutto dissimile dal macchinismo dell’antica “rivoluzione industriale” e del fordismo. Non è la sostituzione del lavoro operaio diretto quanto l’interazione tra uomini e macchine la caratteristica del macchinismo 4.0. La fabbrica automatizzata non è più catena di montaggio. E l’uso dei robot non è più confinato alle aree a rischio del processi costruttivi (es. verniciatura, lavorazione dei materiali ecc). La fabbrica diventa un complesso di aree e sistemi cyber-fisici, di ambienti e luoghi diversi (progettazione, ingegneria, produzione, amministrazione, logistica, spedizione ecc). La presenza umana di controllo, regolazione, coordinamento attraverso figure esperte e specializzate riguarda ogni snodo del flusso produttivo. Il passaggio dalla mass production fordista alla mass customization della manifattura 4.0 richiede la gestione diretta, in fabbrica, di un ampio flusso di dati (big data) reso possibile dall’uso del cloud. L’uso esteso dell’elettronica e l’interazione always on tra macchine e internet richiedono attenzione a nuove esigenze (pensiamo solo all’efficienza energetica o ambientale). Tutto questo si traduce in un apporto umano ai processi di automazione e robotizzazione (nuove specializzazioni e nuove figure professionali) inedite e impensabili nel vecchio macchinismo.

   

L’incubo del “robot replace human” e della distruzione dei posti di lavoro omette tutto questo: il lavoro umano in fabbrica non è affatto destinato a scomparire. Ma a cambiare: non più relegato alle operazioni meccaniche e ripetitive, si sposterà su quelle di controllo, di manutenzione in linea dei macchinari, di settaggio di sistemi, di problem-solving, di impostazione e programmazione delle macchine, di esperto informatico, di controllo logistico dello stoccaggio, dei flussi delle merci tra i diversi settori del ciclo di ideazione, fabbricazione e spedizione dei prodotti.

La radicale novità del macchinismo di oggi, rispetto al tecnoutopismo di Marx e all’automatismo del Novecento, è il fatto che investe il settore dei servizi (sanità, trasporti, commercio, credito, wellbeing, turismo, cultura, comunicazioni ecc.) oltre a quello della produzione diretta. Anzi: i robot attivi nei servizi sono già oggi oltre il doppio di quelli nel settore industriale. Si calcola che oltre la metà dei posti di lavoro in questi settori potrebbe essere computerizzata e robotizzata nei prossimi vent’anni. Fino a toccare territori impensabili del lavoro fiduciario e di relazione tra persone (infermieri, medici, camerieri e, perfino, chirurghi). In Giappone, società impaurita dal fenomeno dell’ageing, la robotizzazione del lavoro di cura è un punto di agenda nazionale. Anche nei servizi, però, la realtà è ben diversa dal semplice “robot replace human”. Se guardiamo al catalogo, che comincia a diventare impressionante, delle macchine robotiche nelle attività di servizio non è l’ingenuo modello del robot tuttofare e indipendente, proposto dai film di fantascienza. Si tratta, scrive Michio Kaku (Fisica del futuro, 2011), di “sistemi esperti” piuttosto che di robot tradizionali. Si tratta di macchine nel cui software vengono codificate conoscenze ed esperienze umane che scambiano, in modo friendly, con gli utenti. Interfacce, insomma. Niente che lasci supporre un’autonomia o autodeterminazione delle macchine. Più che il replacement è l’interazione tra uomo e macchina il tratto distintivo della robotica attuale. I robot si presentano, principalmente, come estensioni “serventi” e potenziamento di facoltà umane, piuttosto che il loro rimpiazzo. Pensiamo alle nanotecnologie robotiche in medicina e chirurgia, nella diagnostica medica o al remote-control nella manutenzione, esplorazione e ricerca in ambienti pericolosi. Di più: nei servizi 4.0 si profila una copiosa rinascita di vecchi mestieri. Passeggiate in via degli Orefici a Napoli, luogo di una delle più tradizionali filiere di successo della storia plurisecolare del Regno. Non ci sono più le botteghe degli orafi. Ma basta guardare meglio e scoprite i laboratori e piccoli mercati attrezzati in cui giovani muniti di stampanti 3D stanno riscrivendo il mestiere di orafo e, attraverso internet, si dotano di mercati senza confini.

   

Insomma il deserto occupazionale come incubo della robotizzazione è una paura largamente sovrastimata. Com’è stato ampiamente esagerato il timore sotteso a ogni riflessione, dagli anni Quaranta a oggi, sull’intelligenza artificiale. L’idea della macchina umanoide, della creatura meccanica, dell’automa antropomorfo è, da sempre, un topos controverso dell’anima occidentale (non così in Oriente): sospeso tra ammirazione (per le possibilità della tecnologia) e incubo (per l’avvento di un oltreuomo artificiale e una “dittatura delle macchine”). Abbiamo accennato alla fantascienza di Asimov che introduce un intero e vasto genere letterario. Arte e cinematografia, dalla metà dell’800 in poi, dal Frankenstein di Mary Shelley a Metropolis di Fritz Lang, da R.U.R di Karel Capek (che introduce il termine robot) ad AI, intelligenza artificiale di Spielberg, a 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, fino ai recenti robot assassini di Terminator, danno eco a un’inquietudine sull’intelligenza artificiale che percorre come un filo la cultura occidentale di almeno due secoli. Fino al 1950, in piena Guerra fredda, quando Alan Turing in Computing machinery and Intelligence, sulla rivista Mind, lanciò la bomba che, da allora, è il dilemma chiave dell’artificial intelligence: una macchina può pensare? Turing, è noto, elaborò un test geniale per provare la possibilità che il software di un robot potesse eguagliare il cervello umano: ingannare, in un dialogo nascosto tra uomo e macchina, una giuria di esperti. Da 70 anni i robot intelligenti si susseguono con il ritmo sorprendente della legge di Moore ma il superamento del test di Turing è limitato a qualche episodio controverso. Rispetto alle aspettative iniziali del tecnoutopismo, la previsione del superamento della soglia tra computer intelligente e cervello umano si sposta sempre più avanti nel tempo. Nel 1997 la più impressionante delle imprese del computing intelligente (Deep Blue di Ibm che batte Kasparov, campione mondiale di scacchi) è anche la più cocente delle smentite del tecnoutopismo: un robot può sopravanzare, indubbiamente, il cervello umano quanto a potenza di calcolo, ma non riesce a performare nulla che possa nemmeno assomigliare al pensare di un neonato allo stato, appena, precognitivo. Viki di Asimov è davvero lontano.

  

La neurobiologia e le scoperte sul funzionamento del cervello hanno contribuito a dipanare residue utopie: cervello e computer sono macchine niente affatto comparabili. La nostra macchina biologica, fondata sulle reti neurali, col loro sistema connesso di 100 miliardi di neuroni e miliardi di sinapsi, è semplicemente non riproducibile (anche perché frutto di un’evoluzione e un trial and error naturale durate svariate centinaia di milioni di anni). In fondo dobbiamo prendere atto dei limiti della nostra potenza. Un robot è una creazione umana. E’, semplicemente, espressione di vanità e illusione prometeica e frustrante quella di chi ritiene possibile che l’uomo possa replicare, artificialmente e nell’arco temporale di qualche generazione, un processo biologico (la formazione della mente) prodotta da una selezione naturale durata eoni. La differenza tra mente e computer resterà, forse per sempre, confinata alla distanza che passa tra potenza di calcolo di un computer e di una macchina robotica (tendenzialmente infinita con gli sviluppi del computing quantico, del calcolo parallelo, dell’accesso ai big data) e capacità di apprendimento del cervello umano (esperienza specifica umana e preclusa ad ogni macchina robotica). La soglia quantitativa della differenza potrebbe essere raffigurata, appunto, dal numero dei neuroni e delle sinapsi: in nessun computer o robot si è riusciti, dopo un secolo di intelligenza artificiale, ad installare nemmeno qualche decina di neuroni con qualche centinaia di sinapsi. Che è lontanissimo dai 300 neuroni e 7000 sinapsi di un verme primitivo. Non solo.

   

Il vero dilemma dell’intelligenza artificiale è la barriera del silicio. Si ritiene che intorno al 2020 i wafer di silicio (le piastre su cui sono incisi i circuiti intelligenti e i transistors miniaturizzati ), il cuore della potenza dei computer, raggiungeranno il limite di spazio fisico di incisione. Allora si prevede una possibile catastrofe del materiale: il silicio comincerà a mostrare difetti e inefficienze. La legge di Moore che ha guidato 60 anni di innovazione dei computer, smetterà di funzionare. Il tentativo prometeico di stampare, nella memoria di un computer, qualcosa che assomigli ad una rete neurale biologica incontrerà un imprevisto stop tecnologico. E’, dunque, la rete neurale la specificità biologica che nessuna CPU o memoria di computer potrà, forse mai, eguagliare. In nessun robot è immaginabile che possa mai cablarsi l’emozione: il prerequisito specifico della conoscenza e del funzionamento del nostro cervello. Né il meccanismo quantistico (scriveva il grande matematico inglese Roger Penrose) che presiede alla mente dell’imperatore, quella dell’uomo.

    

Nessuna paura, dunque. Il sopravvento dei robot e il crepuscolo del cervello umano, piegato dalla dittatura benevola delle macchine, non è prossima. E nemmeno ipotizzabile. Delusione? Affatto. La frontiera della robotica non è il duello uomo-macchina. E’, piuttosto, la reciproca adattabilità. I robot non rimpiazzano l’uomo ma ne prolungano e potenziano le facoltà. Non ci aspetta nessuna sostituzione di realtà umana con matrix, la realtà virtuale delle macchine pensanti. Semmai l’opposto: i robot, sistemi serventi, realizzano una realtà aumentata. E con effetti di crescente padronanza umana. L’evoluzione della specie non è, ancora, a un turning point o al salto di una mutazione e al twilight dell’uomo. Non è detto che il nostro successore sarà un robot.

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