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Gli smartphone fanno venire la depressione ai ragazzi? Nuove ricerche dicono di no

Eugenio Cau

I maggiori studi finora fatti sul tema mostrano che le prove sono inconsistenti e che le analisi si basano soprattutto su correlazioni

Milano. Da anni i genitori più coscienziosi in tutto il mondo sviluppato conteggiano lo screen time dei loro figli. Conteggiano lo screen time televisivo, cioè il tempo trascorso dai ragazzi davanti alla vecchia televisione, ma quello ormai preoccupa poco, ché da decenni la tv è oggetto di contrattazione tra le generazioni. Conteggiano, soprattutto, il tempo che i bambini e i ragazzi trascorrono davanti agli smartphone e ai tablet, e si arrovellano in calcoli per cercare di capire i due numeri cardine della pedagogia digitale: a quale età concedere l’utilizzo del primo smartphone e – una volta concesso – per quante ore al giorno, ammesso che sia possibile limitare l’utilizzo dello smartphone una volta che lo si è messo in mano a un ragazzo.

 

Dietro a queste preoccupazioni ci sono timori profondi e solo in parte fondati. Per esempio, si dice che l’utilizzo dello smartphone crei dipendenza nei ragazzi (forse, ma la crea anche nei grandi, e non più della tv). Soprattutto, alcune ricerche diventate molto famose negli ultimi anni hanno collegato l’aumento dell’utilizzo dello smartphone con un aumento di casi di ansia, depressione e perfino suicidio tra i ragazzi in alcuni paesi sviluppati dell’occidente, come gli Stati Uniti. La ricerca più famosa è quella della psicologa americana Jean Twenge, che ha sostenuto che gli smartphone hanno “rovinato una generazione”. Dopo la pubblicazione di un suo celeberrimo articolo sull’Atlantic, nel 2017, Twenge è diventata la portabandiera di un movimento che vede nella proibizione degli smartphone a bambini e ragazzi non più soltanto una libera scelta educativa, ma un’emergenza sanitaria: gli smartphone, diceva Twenge, possono provocare depressione negli adolescenti che li utilizzano.

 

Nuove ricerche più recenti e più esaustive, tuttavia, sono tornate sul tema e hanno smontato in gran parte il collegamento tra utilizzo degli smartphone e disagi o malattie mentali. Pochi giorni fa sul Journal of Child Psychology and Psychiatry è stata pubblicata una ricerca condotta da Candice L. Odgers dell’Università della California, che con il suo staff ha vagliato i 37 studi più importanti che studiano i legami tra smartphone e ansia e depressione. Il risultato della ricerca di Odgers è: i maggiori studi finora fatti sul tema mostrano che le prove sono inconsistenti e che le ricerche si basano soprattutto su correlazioni. È anche la critica principale rivolta al lavoro di Twenge. È indiscutibile che negli ultimi anni ci sia stato un aumento di casi di depressione e ansia tra i giovani di alcuni paesi occidentali, ma come dimostrare in maniera scientifica che questo aumento è dovuto allo smartphone e non ad altri fattori? Inoltre, se è vero che gli adolescenti americani sono più depressi, lo stesso non si può dire per gli adolescenti di alcuni paesi europei che usano gli smartphone a livelli comparabili. La ricerca di Odgers non è l’unica che sta creando un nuovo consenso attorno al tema. Appena pochi giorni fa Amy Orben dell’Università di Cambridge ha pubblicato un’altra analisi della letteratura scientifica in cui si rileva niente più che una “piccola correlazione negativa” tra smartphone e disagi mentali, così piccola che non può essere annoverata come una vera causa. Tra pochi giorni inoltre Jeff Hancock, il fondatore dello Stanford Social Media Lab, pubblicherà una propria ricerca con risultati simili. In un’intervista al New York Times, Hancock ha detto che il discorso attuale attorno a smartphone e benessere è dominato da “molta eccitazione e molta paura”.

 

Ciò non significa che tutte le preoccupazioni siano infondate. Gli smartphone sono strumenti potenti che vanno usati con giudizio, e quello che c’è dentro – le app pensate per massimizzare la dipendenza, i social network che monetizzano odio e indignazione – può creare ripercussioni grandi sull’individuo e sulla società, e non soltanto sui ragazzi. Ma queste ripercussioni vanno studiate, vagliate, riprodotte in laboratorio.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.