Pokemon Go: una difesa preventiva dai moralismi anti app

Rosamaria Bitetti

Già possiamo prevedere i buongiorno dei Gramellini sul fatto che la tecnologia ci incolla agli smartphone distruggendo i rapporti umani, i moniti dei Rampini su come queste multinazionali trascinino via risorse dall’economia reale. Alcune tesi per smontarli.

Da qualche settimana il mondo è impazzito per Pokemon Go, che in America ha già superato gli iscritti di Tinder o le ricerche di YouPorn (stravolgendo uno dei grandi capisaldi dell’internet). Migliaia di persone inseguono per le strade, attraverso la realtà aumentata dallo schermo del loro cellulari, questi esseri mitologici. La gente va così a cacciarsi in posti pericolosi o cade nei tombini, prende malaware installando il videogioco illegalmente, si preoccupa (ma neanche troppo) che Pikachu gli legga la posta.

 

Con l'arrivo di Pokemon Go in Italia in queste ore, già possiamo prevedere i buongiorno dei Gramellini sul fatto che la tecnologia ci incolla agli smartphone distruggendo i rapporti umani, i moniti dei Rampini su come queste multinazionali trascinino via risorse dall’economia reale, le filippiche dei Fusaro su come questo strumento del neoliberismo congiuri alla nostra totale alienazione. Possiamo preannunciarli in parte perché i nostri commentatori sono abbastanza prevedibili, e in parte perché queste riflessioni sono già uscite sulla stampa internazionale, a cui spesso i nostri attingono con generosità.

 



 

Il Guardian si preoccupa ad esempio che quella lanciata da Nintendo e Niantic sia una nuova religione: “Questo tipo di animismo è incorporato nel consumismo delle merci, dove i legami emotivi fra persone e cose vengono utilizzati per spingere dei prodotti” e invoca addirittura l’icona internazionale della fuffa anticapitalista Slavoj Zizek contro il motto degli allenatori di Pokemon:  “Gotta Catch ‘em all!” gronda infatti, inequivocabilmente, di egoismo neoliberista.  E questo dovrebbe bastare a dare un giudizio morale.

 

I mali dei Squirtle, Bulbasaur e Charmender assumono presto una dimensione economico-sistemica: Timothy Lee ci spiega, dalle pagine di VOX, come il videogioco sia “tutto ciò che c’è di male nel tardo capitalismo”. Passare tanto tempo su un’app gratuita, infatti, è una pericolosa fonte di disuguaglianza regionale: un tempo per divertirci uscivamo la sera, spendevamo al bar e alla pizzeria, e così davamo lavoro a chi era impiegato nel mercato locale. Invece oggi tutto il nostro divertimento arricchisce solo una pericolosa multinazionale giapponese. Le fallacie economiche qui si sprecano. Innanzitutto, il fatto che la gente possa divertirsi per giorni spendendo praticamente solo batteria e traffico dati è esattamente un segnale di come la grande trasformazione sia stata in grado di rendere cose piacevoli abbordabili per tutti. Ogni volta che risparmiamo qualcosa, abbiamo più reddito disponibile: per risparmiare e investire, ma anche per consumare in beni diversi. Ma non c’è bisogno di chiamare in causa Adam Smith, basta guardare a cosa offre Pokemon Go: le imprese locali, infatti, possono acquistare una modalità del gioco “lures” che aumenta il numero di mostriciattoli nella loro zona, attirando più clienti e aumentando profitti. Perché se l’economia si smaterializza, non vuol dire che si interrompe la sfida di trovare valore da dare ai propri clienti.

 

L’altro mantra che sentiremo risuonare di nuovo è quello su come la tecnologia ci renda sempre più soli nelle nostre realtà virtuali. Ecco, a quanto pare rincorrere MewTwo e Horsea sta costringendo la gente a uscire di casa, a incontrare altri, a interagire. Una delle conseguenze più inattese è stato l’impatto positivo di questo videogioco sulle persone depresse o con altri disordini mentali e alimentari, che hanno inondato Twitter di ringraziamenti. “Se sei profondamente depresso, il tuo livello di motivazione è non esistente, per cui anche uscire a prendere aria, o fare una doccia, diventa difficilissimo da capire, e ancora di più da realizzarsi. Per questo l’impatto di questo gioco può essere enormemente benefico” dichiara John Grohol, psicologo specializzato sull’impatto della tecnologia sulla salute, al web magazine Engadget. Ma è più facile ripetere che le notifiche di Facebook ci distolgono dai legami veri: come se discutere per iscritto fosse meno profondo che discutere a parole, o come se le interazioni fra gli esseri umani fossero a somma finita.

 

Siamo invece creature molto socievoli – non a caso internet è veramente decollato proprio grazie a progetti che permettevano di essere sociali. Il like alla foto del figlio di un amica non sostituisce, ma integra le visite al pargolo che vorremmo, e non sempre possiamo, fare dal vivo. Le lunghe discussioni su Facebook sono complementari a quelle al bar, che abbiamo sempre meno tempo di fare. Sembra triviale scriverlo, ma non parliamo con computer e cellulari, parliamo con i nostri amici: siamo sempre noi, a mostrare le unghie rifatte o a commentare brexit. Con Pokemon Go posso giocare con persone nuove e vecchi amici che non riescono più a incastrare un giorno della settimana per i giochi da tavolo. Insomma, giocate o non giocate, ma non indulgete nei soliti moralismi per dimostrare di essere superiori a chi allena mostriciattoli incollato allo schermo.

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